Gustose frittate, salumi e insaccati, torte di verdure, fritti di rane e, tipiche fagiolate, come quelle realizzate durante feste di carnevale e sagre paesane dei numerosi comuni della zona, fanno parte del gustoso repertorio di preparazioni rintracciabili nella provincia piemontese.
Con il vocabolo risotto, però, si fa il salto di qualità, si entra nel vivo della gastronomia locale, si apre un’enciclopedia zeppa di sapori e profumi, ci si avventura in un avvincente trattato di tecnica e fantasia, rallegrandosi di un mondo a parte fatto di persone con esperienze e storie diverse ma accomunate dai ritmi aggraziati e dai gesti misurati che esaltano il riso e lo rendono protagonista indiscusso.
Infatti, grazie alla sua naturale versatilità, sono ben pochi gli ingredienti che non vanno d’accordo con il magico chicco. Certo alcuni rendono meglio di altri ma la cucina si è andata affinando via via nel gusto e ha proposto interpretazioni nuove e abbinamenti inconsueti che hanno proiettato il mite cereale in un universo gastronomico colto, dinamico e attuale. Che dire, infatti, del repertorio di affermati chef che servono alle loro tavole internazionali risotti fantasmagorici e scenografici come quelli “con funghi e conserva di ricci di mare”, “di cavolo bianco e scampi saltati all’olio di crostacei”, “allo champagne con mirtilli, pinoli tostati ed erba cipollina”, “con baccalà mantecato al latte con profumi di aglio orsino e salsa di vino bianco”, “al granchio reale, uova di salmone, barbabietola rossa e lattuga di mare”.
Sull’argomento, però, anche la cucina tradizionale piemontese ha da dire la sua autorevole parola, dato che annovera tra le sue migliori espressioni una preparazione verace, schietta e gustosa, come dev’essere, proprio a base di riso. Si tratta della “panissa”, una prelibatezza intramontabile, insuperabile nel profumo e nel sapore, appagante già nel nome e alla vista.
Ne esistono, com’è giusto, numerosissime versioni ma certi elementi sono ricorrenti: un buon brodo di carne aromatizzato con sedano, carota, verza e erbette di campo, fondamentale per iniziare; qualche tocco di “salam t’la duja”, tipico salume conservato coperto da strutto nelle tradizionali arbanelle di vetro perché si mantenga morbido; mortadella di fegato o salsiccia o lardo in base alla disponibilità per irrobustire ulteriormente il soffritto; abbondanti fagioli di Saluggia per arricchire la forchettata; vino rosso per sfumare, ridurre i grassi e dare una nota di colore.
Poi, l’ingrediente principale, il riso che dev’essere a grana grossa, di una varietà adatta alla cottura prolungata. Due le manciate previste per ogni commensale ma è meglio abbondare poiché questo è decisamente uno di quei piatti che si esalta nella quantità e dedicato alle cosiddette “buone forchette”. Per la cottura l’ideale è disporre di un paiolo di rame stagnato, di un mestolo in legno per rimestare il giusto - senza esagerare perché il riso preferisce una placida tranquillità – e, infine, di un pizzico di pazienza per lasciare che, spento il fuoco, riposi per almeno cinque minuti e s’anmatun-i”. I veri intenditori, dopo essersi serviti a dovere, non tralasceranno, infatti, di gustarsi anche il “tacafund”, la parte rimasta inevitabilmente attaccata, leggermente bruciacchiata, alla pentola.
Obbligatorio accompagnare il tutto con un buon bicchiere di vino rosso meglio se un nebbiolo delle Coste del Sesia adeguatamente invecchiato.
È un piatto contadino e antico, preparato con gli ingredienti a disposizione per il pranzo della domenica, celebrato in numerose occasioni come, ormai da venticinque anni, dalla seguitissima Sagra d’la Panissa che si tiene a Vercelli durante il mese di agosto, una festa popolare molto attesa e sempre arricchita da qualche nuova iniziativa.