C’è, in Puglia, una pianta che copre il territorio capillarmente da Nord a Sud, senza soluzione di continuità, condizionando il paesaggio: l’ulivo, che accompagna le generazioni di pugliesi praticamente da sempre. Rappresenta nel regno vegetale quello che rappresenta nel regno animale il cane, il migliore amico dell’uomo. Lo storico legame fra pianta e uomo si può cogliere appieno davanti a quei veri e propri monumenti viventi che sono gli ulivi secolari, giganti silenziosi che accompagnano fedeli il percorso di chi si prende, con rispetto e riconoscenza, cura di loro. Questo rapporto è tanto importante da essere rappresentato al centro dello stemma della regione.

Purtroppo, negli ultimi anni, questo rapporto ancestrale fra pianta e uomo è messo a dura prova da una pericolosa epidemia, provocata dal batterio Xilella, che colpisce le piante in maniera apparentemente inarrestabile. Presente da ormai più di un decennio, l’epidemia ha già provocato danni incalcolabili sia alla produzione di olive, e quindi di olio, sia al paesaggio, cancellando milioni alberi. Personalmente, mi chiedo come sia possibile non aver trovato una soluzione definitiva al problema, soprattutto pensando a cosa sia riuscita a produrre la scienza sotto lo schiaffo del Covid: una serie di vaccini del tutto nuovi in circa un anno. Resta da augurarsi che la soluzione arrivi quanto prima, per tutelare, e magari ripristinare, un patrimonio che deve essere assolutamente salvato.

L’olivicoltura ha contribuito in modo importante alla creazione della ricchezza della regione. Olive ed olio sono state, da tempo immemore, al centro dei commerci fra la Puglia ed il resto del mondo e non solo dal punto di vista gastronomico: fra il Seicento e l’Ottocento fiorì un imponente e lucroso commercio di olio lampante, così denominato perché usato per l’illuminazione, anche quella pubblica di grandi città estere come Parigi e Londra.

Di questa fiorente attività fu epicentro il Salento e soprattutto Gallipoli, che sfruttò il suo porto per spedire il tanto ricercato prodotto ovunque fosse richiesto, entrando anche nei mercati della produzione tessile e della lavorazione dei saponi. Nelle città pugliesi si svilupparono centinaia di frantoi ipogei, posti sotto il livello del suolo - alcuni dei quali, ristrutturati, sono oggi visitabili. Questi frantoi si articolavano verso il basso essenzialmente per ragioni di spazio, essendo allestiti nel pieno centro abitato. Un esempio mirabile si trova all’interno del complesso abbaziale di Santa Maria di Cerrate, poco a Nord di Lecce. In questo caso, come per altri ipogei sparsi nelle campagne, la scelta di costruire verso il basso era dettata soprattutto dalla necessità di difendere la produzione dalle reiterate razzie dei saraceni, che mettevano continuamente a rischio la prosperità economica dei territori.

Quella stessa prosperità è assicurata ancora oggi dall’olivicoltura, con il suo prodotto principe, l’olio. La coltura dell’ulivo interessa tutta la regione da nord a sud, con diverse cultivar (cioè, le diverse varietà di olive), dalle quali si producono olii con diverse caratteristiche. Nel foggiano troviamo l’ogliarola garganica e la peranzana. Nel barese sono presenti la coratina e l’ogliarola o Cima di Bitonto. Nel Salento l’ogliarola leccese e la cellina di Nardò. Sono tutte varietà che danno grandi olii, dal punto di vista qualitativo, perché l’olio da monocultivar assicura maggiore personalità rispetto ad olii ottenuti da blend di cultivar diverse.

Alla base dell’elevata qualità dell’olio pugliese c’è anzitutto il sistema di produzione. Le olive vengono rigorosamente raccolte a mano, il che rende possibile scegliere quali frutti raccogliere, eliminando quelli con problemi ed evitare il contatto col terreno, in modo da limitare contaminazioni che possano provocare la nascita di muffe e fermentazioni. Il raccolto si porta subito in frantoio per la molitura, preferibilmente in giornata. Da ottobre a marzo i frantoi lavorano praticamente a ciclo continuo, con un incessante arrivo di carichi da molire quanto prima.

Questo perché l’olio è un prodotto tanto prezioso, dal punto di vista organolettico, quanto delicato. È infatti soggetto alla formazione di muffe, dovute principalmente a problemi in fase di raccolta, e irrancidimento, dovuto a cattiva conservazione. Un antico detto contadino recita “olio nuovo, vino vecchio”, proprio a sottolineare che l’olio non ha una vita alimentare lunga, non invecchia bene come il buon vino e sarebbe bene consumarlo entro un anno dalla produzione, perché col passare del tempo le caratteristiche organolettiche cambiano, in peggio. Per questa ragione, in fase di conservazione, bisogna proteggere l’olio dalla luce, dal calore e dall’aria.

Questa protezione avviene assicurando la massima cura nella conduzione dell’uliveto. Nelle campagne baresi, nelle quali amo immergermi di continuo con lunghe corse in bici, non c’è giorno in cui i coltivatori non siano tra gli alberi, impegnati nelle operazioni di “manutenzione”: vari stadi di potature, che modellano le chiome secondo necessità; pulizie dei terreni sottostanti, per evitare la formazione di piante infestanti; vari tipi di irrigazione, sempre più moderni e puntuali, per assicurare la giusta quantità di acqua, considerando il clima sempre più torrido che si sta riproponendo con costanza negli ultimi anni; trattamenti anticrittogamici, per cercare di allontanare insetti che potrebbero nuocere alla prodotto.

Una serie di attività che si possono considerare “buone pratiche”, il cui progressivo abbandono in certe aree ha forse favorito lo scoppio dell’epidemia di Xilella.

Pratiche secolari, che si sono evolute col tempo, modernizzandosi e che da sole, insieme ai progressi tecnologici delle macchine per l’estrazione, spiegano l’alto livello qualitativo dell’olio pugliese, con molte punte di assoluta eccellenza, come le produzioni della zona intorno ad Andria e quelle intorno a Bitonto. Eccellenza che si accompagna all’aspetto quantitativo, registrando sempre, anche nelle annate più problematiche, la produzione maggiore in Italia, primato che difficilmente potrà essere scalfito, se si riuscirà a trovare un argine alla diffusione dell’epidemia in atto, per ora confinata nel Salento.

Oltre all’olio, anche il semplice frutto dell’ulivo, l’oliva, è un prodotto di punta. Vi sono infatti svariati tipi di olive da tavola, tra le quali la Bella di Cerignola e la Termite di Bitetto, la Leccina e la Cellina barese. In acqua o in calce, le olive pugliesi sono un retaggio della tradizione rurale, che aveva la necessità di far durare nel tempo gli alimenti, per poterli utilizzare al bisogno. Questo avveniva attraverso processi che richiedevano giorni e giorni di attenta preparazione per ottenere il prodotto desiderato. In tal modo si creava una scorta di cibo importante per lo svolgimento dei lavori giornalieri: di fatto fin dal tempo degli antichi, con del pane ed un po' di formaggio le olive costituivano un pasto frugale ma sostanzioso, grazie alle proprietà nutritive dell’oliva, fonte di vitamine, sali minerali e fibre.

Anche ai giorni nostri l’oliva continua ad essere un alimento molto presente sulle tavole pugliesi. In generale, le olive verdi sono adatte per antipasti e insalate, immancabili per i vari aperitivi, mentre le olive nere sono indicate anche in varie cotture, come ad esempio, in diverse ricette di pesce e sono essenziali in un pezzo forte della gastronomia regionale: la puccia salentina, pane con olive nere nell’impasto, che è immancabile su tante tavole per il giorno dell’Immacolata.

Nell’immediato futuro bisognerà difendere questo inestimabile patrimonio dalla distruzione, sia per ovvi motivi economici sia per la tutela del paesaggio, che per colpa dell’epidemia sta già cambiando per larghi tratti di territorio. Un panorama costituito da una interminabile distesa ha contraddistinto e fortemente caratterizzato da sempre tutta la ragione e non può andare disperso. È necessario un sostanzioso investimento economico che porti la scienza a trovare una soluzione definitiva e tutti gli enti territoriali, Regione in testa, devono farne obiettivo primario. Solo grazie alla ricerca si potrà assicurare la persistenza di quell’antica pianta nello stemma regionale.