La domenica era sempre un giorno particolare per i ragazzi. Perfino ora che era luglio e non c’era scuola, si respirava un’aria diversa dagli altri giorni - un’aria come di attesa per qualcosa di particolare che sarebbe dovuto accadere. Poi magari non succedeva nulla, ma i ragazzi portavano fino a sera tardi quel senso di mistero e d’avventura.
Quella domenica d’inizio di luglio si ritrovarono un po’ prima delle dieci sugli spiazzi - Ughetto, Giovanni, Pino e il Pretino - e corsero tutti insieme verso la chiesa, in tempo per la messa delle dieci. Correvano non tanto per andare a messa, quanto per non perdere la parata della gente che entrava in chiesa.
Erano soprattutto i ricchi che davano sempre spettacolo. I ricchi arrivavano in calesse, e ogni calesse era trainato da un bel cavallo lavato di fresco - erano le famiglie dei Mellini, del Buonosì, quelli che hanno la villa a capo d’Arco; i Giannoni, i Tonietti, i Cignoni… I ragazzi a volte si avvicinavano fino alle ruote del calesse per ammirarne le borchie e il legno rilucente. Ma il domestico che aveva guidato il calesse li manteneva a buona distanza, spingendoli via senza troppi riguardi. Le Signore portavano un cappello nero o bianco, e indossavano abiti lunghi bellissimi da cui i poveri che guardavano non potevano distaccare gli occhi. Le Signore procedevano con un bel sorriso e muovendo leggermente un ventaglio colorato dai colori non troppo vistosi.
“Mi diceva la mamma”, spiegava Pino “che le Signore si fanno fa’ i vestiti a Roma, da Gianturco…” “E chi è?” Mah! Deve essere un sarto famoso a Roma, uno che fa anche le scarpe. Anche le scarpe se le fanno fa’ a Roma…” “Invece di dare i soldi ai poveri - cominciava a mugugnare Giovanni. Ma gli altri non gli davano ascolto, persi nell’ammirazione di quei vestimenti e gioielli che risplendevano al sole. “Sapete perché le signore portano il cappello?” chiedeva Pino, che di queste cose ne sapeva più degli altri perché erano cose risentite dalla sua mamma che era la più pettegola di tutte. “Contro il sole, no?” “Soprattutto per non abbronzarsi! Le Signore devono mantenere la pelle bianca, perché l’abbronzatura è una cosa da contadine. Sapete” - aggiungeva poi con una certa suspense – “che loro si lavano con l’olio di mandorle amare?” “L’olio di mandorle amare?” – chiese Giovanni stupito. Era per lui tutto un mondo nuovo! “Sì, sì! Serve per toglie l’abbronzatura, e lascia la pelle bianca come il latte. Ne consumano a litri, di quest’olio, e sapete quanto costa?” “Oh, guarda quel cappello con le piume gialle e il nastro rosso!” - interruppe Ughetto. “Quella è la signora Pina, la sarta. Ha una figliola così carina!” - rispose Pino con un sospiro. Fu un errore, perché gli altri cominciarono subito a sfotterlo.
“Ah, stupido, ti sei innamorato?” “Ma sentilo come sospira!” “Il carbonaio che si innamora della principessa! “Smettetela, scemi! Guardate piuttosto quel calesse a due cavalli!” “Chi è?” “Quello che scende è il padrone delle miniere!” spiegò Pino. “Lui dice di essere così ricco, che nemmeno tutti i suoi sciagurati figli” - così dice lui – “riusciranno a dilapidare il suo denaro. Ha stanze intere piene di oro e d’argento…” “Mio Dio! Cosa faresti tu con tutti questi soldi?” “Io li distribuirei ai poveri” disse deciso Giovanni. “Io mi comprerei un brigantino a vela” - disse Pino – “e me ne andrei a gira’ il mondo!…” - ma poi ci ripensò – “No, aspetta: prima comprerei una bottega al mi’ babbo, così che smette di lavora’ in miniera” - abbassò gli occhi a terra - “lui lavora e lavora e non abbiamo mai di che mangia’…” “Guardate la Natalina che viene con la mamma! Che bei capelli biondi!” “Dice la mia mamma che è la più bella del paese!”.
Seguirono con gli occhi la ragazzina dalle trecce bionde che camminava piano piano a fianco della madre vestita di nero. “Sei innamorato anche tu di lei?” - schernì Ughetto spingendo Pino per il braccio. “Stupido! Guarda piuttosto che ora sono entrati tutti in chiesa, dovremmo entrare anche noi, prima che il prete cominci. Oggi ci sarà anche un matrimonio e allora la messa è più breve del solito… Gli sposi devono essere già dentro”. “Chi si sposa?” “Ma non lo sai? Fosco si sposa, con la Maria Grazia. Sono stati fidanzati quindici anni e passa!” “Io non ci vengo ugualmente in chiesa, lo sapete!” - esclamò Giovanni. “Altrimenti tuo padre te le dà di grosso!” “Non è per questo!” gridò Giovanni punto sul vivo “è proprio che non mi piace la chiesa e i preti, perché sono sempre dalla parte dei ricchi”. “Non è vero!” protestò il Pretino con veemenza “Che scemate! E poi non importa, io vado dentro lo stesso” disse il Pretino. Lo guardarono entrare in silenzio. Lui era sempre così, si diceva che avrebbe fatto il prete, da grande - da questo il soprannome che ora non gli si staccava più.
“E noi che facciamo?” chiese Ughetto. “Vogliamo entrare dentro anche noi - o no?” “Certo, ora siamo soli e nessuno ci vede, se scappiamo…Ora sì che si ragiona!” - disse Giovanni, burbero. “Andiamo sugli spiazzi a vede’ che c’è! Forza!”.
E scappò di corsa, e gli altri due lo seguirono ridendo. Giovanni prese le scale per il mercato, e lì si fermarono di botto, perché c’era un gran capannello di persone intorno a uno dei banchi di pietra.
“È Pipi il cacciatore!” disse Ughetto. “Andiamo a vedere!” In quel banco, Pipi il Cacciatore esponeva la selvaggina che aveva preso nella sua mattinata di caccia. Pipi era senz’altro il più grande cacciatore di Rio Marina, forse il più grande di tutta l’Elba. Di lui si raccontavano episodi ormai leggendari sulla sua mira infallibile. Si raccontava anche delle sue avventure con i feroci cinghiali della macchia; o dei trucchi e delle finezze che lui escogitava per acchiappare le volpi più furbe. Per i ragazzini di Rio Marina il Pipi era una specie di figura mitica, un uomo che si additava da lontano con mormorii di ammirazione.
Si intrufolarono tra quel gruppo di persone riuscendo ad arrivare in prima fila. Pipi aveva allineato sulla lastra di granito quattro grossi ricci di macchia, gli irti aculei ancora tesi verso l’esterno. I ragazzi fissavano incantati quelle strane bestie dall’aspetto quasi magico, e avevano difficoltà a capire come gli adulti li considerassero invece solo come qualcosa da mangiare, anzi una delle leccornie più prelibate. “Sono speciali, se vengono cotti alla cacciatora!” - diceva Piero il Nostromo. “Sono meglio della lepre, perché non ha quel sapore di selvatico; e meglio del coniglio, perché la carne non è così dolce come il coniglio...”.
Ora, Pipi il Cacciatore avrebbe dato una dimostrazione di come si prepara il riccio di macchia per cuocerlo. Aveva già preparato un catino pieno d'acqua, dove si sciacquò rapidamente le mani. Poi, senza dire una parola cominciò il rituale, gettando un riccio nel catino d’acqua. La bestia annaspò per tornare a galla, e Pipi, con un legno, lo spinse sott’acqua. “L'unico modo per ammazzarli bene, cioè senza distruggerne il corpo, e anche per non farli soffri’ troppo, è affogarli!” disse allora il Pipi con quella sua voce piena e semplice. L’affogamento durò molto a lungo, o almeno così parve ai ragazzi che seguivano quella scena con il fiato mozzo. Pino alzò gli occhi verso Giovanni e lo vide pallido e spaventato. E anche Ughetto, che pure era abituato ad ammazzare tanti pesci, tratteneva il respiro dalla paura. Pipi il Cacciatore disse a un certo punto. “Ecco!” e tutti tirarono un sospiro di sollievo. Si vedeva che anche a lui l’affogamento non faceva piacere - ma non c’era altro da fare, era un rito che si trasmetteva da anni e anni e al quale non c’erano alternative. A seguito della morte, i muscoli del corpo del riccio si erano rilassati, e due zampine rosa rosa erano sbucate da quel corpo pieno di spine - lì si fissarono tutti gli occhi - anche perché molti già sapevano che la prossima operazione avrebbe riguardato appunto quelle zampette.
Pipi tirò fuori il riccio dall'acqua e allontanò il catino. Estrasse da una borsetta di pelle un rasoio, e con grande cura fece una minuscola incisione su una delle zampette. Poi tirò fuori dalla borsetta un altro arnese: era una specie di cerbottana, una cannuccia ricavata dalla estremità sottile di una canna. Con cura, la introdusse nel taglio che aveva fatto nella zampa del riccio. Poi prese una pompa da bicicletta - di nuovo tirandola fuori come per incanto dalla sua borsetta di pelle – l’abbinò alla cerbottana e cominciò a pompare. I volti dei ragazzi si fecero di nuovo tesi – un misto di curiosità e di paura. Il riccio cominciò a gonfiarsi. Dapprima fu un movimento appena percettibile, poi divenne proprio come una palla di gomma che si gonfia, anche se a fatica. L’aria penetrava nell’intercapedine dell’animale, distaccando il manto pieno di aculei dal resto del corpo. Quando il riccio fu diventato una bella palla rotonda, Pipi il Cacciatore disse di nuovo: “Ecco!” - e tirò fuori di nuovo un rasoio, questa volta grosso e ben tagliente. Legò con un laccio la zampetta della bestia, così che restasse gonfia, e estrasse la pompa da bicicletta. “Quelli di Piombino” disse Pipi con un tono di disprezzo “a questo punto tirerebbero via la pelle, così come si fa con un coniglio. Ma in questo modo si perde il meglio, che è proprio nella cotenna!”
Con gesti prima lenti e circospetti, poi sempre più sicuri, cominciò a radere via gli aculei, scoprendo la pelle nuda. I suoi occhi erano fissi e attenti, come in una difficile operazione chirurgica. Questa operazione durò a lungo, ma tutti gli astanti seguivano ogni suo movimento senza stancarsi. Poi il Pipi posò il rasoio sul banco di granito. C’era così tanto silenzio che quell’improvviso rumore metallico spaventò tutti. Rimase il corpo nudo della bestia, una palla calva e un po’ ripugnante. La cosa era fatta. Il Pipi alzò gli occhi verso quel suo pubblico improvvisato, quel suo sguardo cespuglioso e altero. Poi disse: “Ora si può tagliare a pezzi! È in vendita! Chi lo vuole?”
I ragazzi si fecero un segnale con gli occhi, e Giovanni fu di nuovo quello che prese per primo la corsa. Ughetto e Pino lo seguirono, e un paio di ragazzetti si accodarono a loro. Fu una lunga corsa a perdifiato verso le Piaggie. Si fermarono ansanti e ci fu una lunga pausa di silenzio. Poi cominciarono a parlare tutti insieme. “Certo, farlo affogare così...” “Tu l’hai mai mangiato, il riccio di macchia alla cacciatora?” “Io? Mai e poi mai, lo mangerei!” “Ma no, che è così buono” - protestò Emanuele, che era grasso come una palla - “dovreste assaggiare come è buono il sugo fatto con il riccio. Ci si inzuppa il pane, sapete, e ... gnam!”
Ci fu un momento di silenzio. “Io… voi lo sapete…” disse a un tratto Pino. “Ma sì che lo sappiamo! - gridò Ughetto – “Domani tu parti con il Giovannino. Lo sanno tutti, in paese!” Cominciarono a parlare tutti insieme di quel viaggio. Pino si sarebbe imbarcato come mozzo, e avrebbe fatto un viaggio che sarebbe durato un’intera settimana. Fioccarono le solite domande: “Che devi fare come lavoro? Quanto ti danno in una settimana? I soldi te li pigli tu o la mamma? Non hai paura?”.
Pino rispondeva a qualche domanda, ma per lo più scrollava le spalle e non diceva niente. Era eccitato e preoccupato al tempo stesso. Esaurite le domande e quel soggetto, ci fu un altro momento di silenzio. “Cosa si fa, ora?” chiese uno del gruppo. “Vi ricordate? C’è la festa del matrimonio, no? Venite con me?” - chiese Fabrizio d’improvviso. “Dove?” “A casa di Fosco e della sua mamma, giù al Sasso. Lì verranno gli sposi, non appena escono di chiesa. E intanto noi andiamo e sbafiamo tutti i dolci!” “Buona idea!”. Ripresero a correre. Ansimando, Ughetto disse: “Ma chi glielo fa fare a Fosco di sposarsi?” “Davvero, povero Fosco! Ma ce lo vedete, voi, Fosco da marito casalingo?”
Fosco, i ragazzi lo conoscevano tutti. Quel ragazzone dai capelli rossi amava il mare e le vele, e giocava spesso con loro sulla marina della Torre, costruendo alianti o barchette a vela. Era un sognatore, uno che leggeva tanti libri e raccontava di mondi lontani. La mamma di Fosco era anche famosa in paese, ma non per la sua simpatia: era una montagna di grasso che usciva appena di casa, e a detta della mamma di Pino era velenosa più di un aspide. Si chiamava la Pamplona, chissà perché.
“Ma voi” - disse Pino con aria furbesca – “lo sapete il retroscena del matrimonio, voi?” “Io so che Maria Grazia è già” - fece un cenno osceno con la mano – “incinta. Fosco, non ce l’ha fatta ad aspettare…”. A quella battuta risero tutti. Poi Pino aggiunse: “E la mamma di lui è furiosa, dice che è tutta colpa della Maria Grazia, è lei che l’ha sedotto per farsi sposa’, dice lei… Poi, dice la grassona, la famiglia della sposa non è all’altezza della sua, perché, sai, la mamma della Maria Grazia faceva la ballerina in continente prima di venire a Rio…” “Quella montagna di grasso, la Pamplona…” - disse Emanuele facendone l’imitazione – “gonfiando le gote e camminando lentamente di traverso “non la posso vede’, a quella lì...” “La mia mamma”, aggiunse Pino “ha detto che c’è da aspettarsi una scenata della Pamplona. Perché la Pamplona non vuole questo matrimonio, anzi ha quasi diseredato il figlio, per questo... Andiamo a vede’, forse ci sarà da ride’...”.
Fecero di corsa la volta sotto gli archi e si ritrovarono già al Sasso. Sempre correndo, entrarono nella casa giusta lasciandosi guidare dall’odorino dei dolci sfornati di fresco. Così arrivarono fino al secondo piano. C’era già molta gente, e sarebbero venute molte altre persone, ora che la messa era finita. Bisognava affrettarsi con le paste e i dolci freschi prima che fosse troppo tardi. C’era intorno un vociare confuso e ilare, le donne erano vestite a festa con colori sgargianti, e quasi tutte avevano un ventaglio per difendersi dalla calura di quel luglio. Pino fece un fischio: aveva trovato l’angolino con i bignè ripieni di crema e gli altri ragazzi fecero quadrato intorno a lui, per impedire il passaggio agli altri ospiti. Che tanto quelli parlavano e parlavano e non si occupavano delle paste. Quando ebbero mangiato a sazietà si rivolsero verso la sala. Da quell’angolo dei bignè - che però non c’erano più - potevano vedere l’intera stanza. C’era in fondo alla stanza una scala che portava al piano superiore, dove c’erano le camere da letto. A un certo punto ci fu un po’ di trambusto per le scale. “Viene la Pamplona!” disse qualcuno ridendo.
La Pamplona era famosa per la sua mole e la sua stravaganza. Pesava più di cento chili, e quando saliva o scendeva le scale, due dei suoi generi dovevano sostenerla o spingerla - ed era sempre un’impresa epica, su o giù per le scale. Lei arrivava ansimando, squittendo che sarebbe morta d'infarto se non la mettevano subito a letto. Anche questa volta fu così: agitando un enorme ventaglio cinese che non riusciva a fermare il copioso sudore dal volto gonfio di grasso, si fece portare sul sofà nel salottino adiacente alla sala del rinfresco. I due generi, i mariti delle altre due figlie di Pamplona, la spinsero dentro il sofà così che non traboccasse di fuori e cominciarono a sventagliarla.
“Vuole dei bignè alla crema!” disse uno dei due generi, ansimando. “Vuole del caffè nero con molto zucchero!” - disse l’altro genero con un sospiro. Ci fu un viavai intorno dalla sala al sofà della Pamplona. “Non ci sono più bignè!” gridò qualcuno. “Come è possibile” - gridò Giuseppina, la figlia più giovane della Pamplona. “E ora come si fa?” “Ci sono dei bignè freschi giù in cucina. Presto, qualcuno vada a prenderli!”.
Lei si era tirata un po’ su e la sua mole gigantesca trasudava dispetto per quel ritardo forzato dei bignè alla crema. I bignè arrivarono, un vassoio intero, lei cominciò a mangiarli con un’aria di distacco, che però si trasformò presto in rumorosa voluttà. “Quella invece è Stefanella, la mamma di Maria Grazia, sai, quella che era una ballerina...” - disse Pino indicando una donna minuta vicino alla finestra. “Sì, ma cinquant’anni prima!” - rise Ughetto - “è vecchia come il cucco!” “Ma è simpatica, dai!”.
La Stefanella era proprio l’opposto della Pamplona. Non solo era piccola e mingherlina, ma passava in paese da gran romantica, una che cantava tutto il giorno le arie delle opere, che leggeva tutti i libri d’amore e li raccontava per ore e ore a tutte le donne del vicinato che non sapevano leggere. Per quel giorno di festa, aveva richiesto un’orchestra da Porto Ferraio che avrebbe dovuto suonare il valzer di Strauss da lei preferito, il Danubio Blu. Intanto tutti si erano dimenticati della Pamplona, o meglio nessuno faceva più attenzione al suo squittio che veniva dalla camera da letto. Fu servito il caffè e del gelato alla fragola. Da un momento all’altro sarebbero arrivati gli sposi, e infatti di lì a poco si sentì la risata della Maria Grazia che stava salendo le scale. Tutti gli astanti si disposero a cerchio, lungo le pareti del salone. Fosco e Maria Grazia entrarono tenendosi per mano, raggianti. Ci fu un applauso. Poi cominciarono gli sbaciucchiamenti: i presenti si facevano avanti uno alla volta e baciavano sia la sposa che lo sposo, una scena che i nostri ragazzini giudicavano disgustosa.
A un certo punto, la voce della Pamplona si fece sentire. Uno squittio più alto del solito. “Maria Grazia, vieni qui!” era un ordine che non si poteva trasgredire. Tutti si zittirono. Tutti gli sguardi si rivolsero verso Maria Grazia. Lei non sorrideva più, era diventata bianca. Fosco la guardò incerto, pallido pure lui. Poi Maria Grazia si diresse a passi incerti verso il sofà della Pamplona. La grassa signora guardò a lungo la nuora, che poi si chinò su di lei come per darle un bacio. Allora la grassona le dette uno schiaffo. “Questo è il mio augurio!” gridò la Pamplona con uno squittio alterato dall’emozione. Ci fu un coro di “Oh! Ma no! Dio mio!”.
Maria Grazia cominciò a piangere coprendosi il volto con le mani, e tre o quattro donne le si raggrupparono intorno tentando di consolarla. Poi venne Fosco e tentò di abbracciarla, ma lei si ritrasse piangendo ancora più rumorosamente. La Pamplona, intanto, si era afflosciata, come colta da un malore, e gemeva: “Muoio... muoio…”. Ma nessuno le dava ascolto. Tutti gli occhi erano fissi su Fosco e Maria Grazia, soprattutto su Fosco, ora. Da che parte si sarebbe messo, lui? Dalla parte della madre o dalla parte di sua moglie? Nessuno parlava. A un certo punto Fosco fece di nuovo un passo verso Maria Grazia e la prese per mano, con forza. Poi gridò: “Signore e signori, questa è mia moglie! Per tutta la vita!”. Poi abbracciò la moglie con un gesto teatrale, e la baciò sulla bocca. Maria Grazia prima protestò, voleva solo fuggire, scomparire dalla faccia della terra. Poi venne avanti la Stefanella, con un bel sorriso, come se non fosse successo niente. Con quel sorriso, guardò la figlia fissa negli occhi e la costrinse a rispondere al suo sguardo - e al suo sorriso. Allora Maria Grazia si allontanò dalla madre e prese la mano del marito: “Signore e signori”, gridò “questo è mio marito, per tutta la vita!”.
Si baciarono di nuovo, un bacio plateale alla Hollywood. La Pamplona avrebbe forse cominciato a squittire più sonoramente del solito, ma ci credereste? Proprio in quel momento arrivarono dalla strada le prime e sonore note del valzer, il Danubio Blu di Strauss. Tutti, all’unisono, si persero in un lungo applauso. Ughetto, Pino, Giovanni e tutti gli altri si precipitarono alla finestra gridando: viva gli sposi!