Per uno strano gioco del destino, io che ho sempre amato viaggiare e ho sempre sognato di farlo tanto, mi sono trovata a occuparmene da punti di vista sempre differenti. Il viaggio ha da sempre riempito le mie giornate, la dimensione onirica, ma anche fisica dello spostarsi, del cambiare, del trovare nuovi equilibri, è stata il filo rosso dei miei mutamenti.
Da un punto di vista fisico mi sono spostata molte volte, considerato che ho al mio attivo ben 15 traslochi (alcuni anche via mare). Da un punto di vista emotivo, ho conosciuto e continuo a frequentare gli ambiti del cambiamento e della crescita personale nel lavoro ma anche nella mia sfera privata. Il viaggio dunque è da sempre una dimensione in cui mi sento comoda e che ho incontrato quasi per caso in giovane età, dirigendo un albergo per molti anni. Già a quei tempi, probabilmente in forma inconsapevole, il mio interesse era rivolto al benessere delle persone. Mi sono sempre ritenuta fortunata perché credo che potersi prendere cura di un momento della vita prezioso e spesso agognato come quello delle ferie delle persone, sia estremamente piacevole oltre che una grande responsabilità.
Il tempo dedicato al riposo, al riappropriarsi di una dimensione di piacere, cura, conoscenza, e lento ascoltarsi, è un tempo sacro perché ci riconduce al senso profondo dell’esserci, dell’essere vivi qui e ora. Un tempo sacro, perché dedicato specificamente a un compito: quello di ritrovare il benessere psicofisico, del rallentare, del tornare a incontrare se stessi.
Probabilmente è stata questa la motivazione che fin da subito mi ha attratta e che mi ha fatto intendere il viaggio come una preziosa opportunità di conoscenza di sé che è importante nutrire. La stessa motivazione che rintraccio oggi, come coach, quando propongo il viaggio come un’esperienza di crescita personale da consolidare attraverso la meditazione e l’incontro con gli altri e con territori nuovi.
La dimensione altra che andavo e vado ricercando, era ed è per me la capacità che proprio il viaggio ha di collegarci a un senso ben più profondo dell’esistere, parlandoci la lingua antica delle tradizioni, delle culture secolari dei luoghi che incrociamo, delle lingue o dei dialetti che ascoltiamo, in un continuo scambio di conoscenza che porta ad ampliare la nostra visione del mondo.
È proprio lì, nella visione del mondo che a volte si fa angusta, che si annidano spesso malesseri di cui è necessario imparare a prendersi cura. Come? Principalmente coltivando un approccio “presente”, capace di vedere e riconoscere le dinamiche distorsive che ci portano alla sofferenza e in un secondo momento imparando a prendercene cura. Da questo punto di vista, credo che il viaggio rappresenti un'opportunità preziosa per coltivare questo atteggiamento in un clima spesso piacevole che ci rende più ricettivi e più aperti ad accogliere le novità, compreso quelle che ci richiedono un cambiamento di prospettiva.
Viaggiare non è solo conoscenza ma anche intimità, un po’ come la meditazione. Viaggiare richiede capacità di ascolto, in un continuo entrare e uscire da se stessi per trovare punti di contatto e differenze con culture spesso lontane, anche se ci siamo spostati di pochi chilometri da casa. Vorrei sfatare il mito del viaggio che, per essere inteso tale, ha bisogno di essere “certificato” da un congruo numero di timbri sul passaporto. No, non c’entra niente: viaggiare non significa coprire fisicamente distanze, anzi è del tutto inutile se lo si fa pensando che basti congestionarsi di cartoline dal mondo, senza aprirsi realmente al mondo.
Il viaggio è principalmente nella testa e nel cuore, è un atteggiamento e una predisposizione di animo che si ha nel lasciarsi mescolare all’altro, mantenendo le proprie radici ma lasciandosele anche un po’ “meticciare” dall’incontro con l’altro. Per farlo, per potersi aprire in modo sano ed equilibrato, occorre un ascolto profondo, una conoscenza sempre più intima di se stessi e delle proprie dinamiche per poter entrare in relazione con quelle altrui in modo autentico e quindi terapeutico. Sì, perché la vera cura sono le relazioni, che si rendono possibili solo se prima si è entrati onestamente in relazione con se stessi e se si sono camminati i sentieri stretti e le lande scure di alcune pieghe dell’anima che fatichiamo a praticare perché spesso dolorose o inutilmente appesantite da una forma di giudizio che ce le fa ritenere scomode, quindi inappropriate al “personaggio” che scegliamo di interpretare.
Solo attraverso un cammino onesto, lento, paziente e amorevole dentro se stessi, si può fare altrettanto all’esterno. Come se ci fosse necessario incontrarci, incontrare la nostra nuda e molteplice identità, prima di poter sperare di fare altrettanto con gli altri, in un continuo scambio tra il nostro “dentro” e il nostro “fuori”. Viaggiare, farlo non spostandosi solo con il corpo ma permettendoci di “esserci” e di farne esperienza a tutti i livelli, significa esattamente questo.
Viaggiare significa perdersi e farlo completamente, senza resistenza alcuna, per poi ritrovarci, magari sulla cima di un tempio in una sperduta regione della Birmania o sulla terrazza di casa del contadino a pochi chilometri da casa.
Viaggiare non implica il dove, ma il come.