Vengono soprannominati “il popolo rosso”, a causa dell’abitudine di cospargere tutto il corpo con un impasto di grasso animale e polvere d’ocra che conferisce alla carnagione una calda tinta carminio. E caldo è anche l’ambiente dove da sempre vivono e sopravvivono le etnie Himba, tra gli aridi deserti del nord della Namibia. L’impasto rosso oltre che protezione solare e repellente per gli insetti funge anche da presidio igienico essendo composto anche da erbe aromatiche, e Gli Himba così non risultano maleodoranti anche se non sono troppo propensi a utilizzare l’acqua per lavarsi.
Questa filosofia è propria del resto di buona parte dei pastori nomadi africani e condivisa soprattutto dai Masai di Kenya o Tanzania, per i quali la pulizia personale viene vista addirittura come sorta di disonore: l’acqua è da sempre una risorsa preziosa, necessaria e indispensabile solo per la sopravvivenza delle proprie greggi o mandrie e qualsiasi altro uso viene è considerata ingiustificabile spreco.
Una vita basata su essenzialità che traspare anche dall’organizzazione del villaggio, composto da capanne in fango e frasche dal tetto appuntito, disposte in cerchio attorno al recinto del bestiame o al pozzo. Sono divise all’interno nella parte di sinistra per gli uomini e di destra per le donne, con al centro un fuoco rituale sempre acceso che assicura contatto con il mondo ultraterreno dei defunti. Sulle pareti i pochi averi della famiglia composti da utensili, il ricco abito nuziale della donna in cuoio, pelli di vacca conciate con la solita mistura di fango e ocra e coperte in pelle d’agnello.
Di impasto rosso sono poi cosparse anche le appariscenti trecce delle donne, che fungono da indicatore se cadono sul viso (prima pubertà) o sulle spalle (da sposare), e queste particolarità sono le uniche concessioni estetiche all’abito tradizionale femminile, composto da una nudità velata da solo da un gonnellino in pelle di capra e qualche monile. I ricchi monili sono costituiti da bracciali, cavigliere o collane impreziosite da metallo, spesso proveniente dai resti delle pallottole consumate durante la guerra civile della vicina Angola o durante quella d’indipendenza con il Sudafrica protratta fino al 1990, o più indietro nel tempo trasportate dal colonialismo portoghese e tedesco. Un tempo che risulta entità sconosciuta, dato che nessun Himba si pone il problema di computarlo, non ritenendo necessario cronometrare lo scorrere della vita con orologio o calendario, finendo per non conoscere con precisione nemmeno la propria età anagrafica.
Nonostante le avversità della storia e la durezza del territorio in cui vive, la popolazione Himba riesce a rimanere fedele alle proprie tradizioni, non rinunciando del tutto però alle tentazioni anche positive della globalizzazione: godono di diritto di voto, i bambini frequentano le scuole e gli uomini, a integrazione o sostituzione dell’economia del villaggio basata su allevamento, si sono reinventati quali guide o commercianti a beneficio di un flusso turistico ben consolidato e ormai fonte di reddito sicuro per la regione.
Le donne rimangono ancorate alle tradizioni occupandosi della raccolta di legna, della produzione di cesti e monili o della crescita dei figli e, pur non potendo dedicarsi ad attività che comportino un guadagno diretto di contante, non mancano comunque di spenderlo frequentando nei centri abitati non lontani dai propri villaggi negozi e supermercati. Una concessione alla modernità, ma anche qui sempre e solo vestite di crema ocra e gonnellino.