Quando vedo Camillo per la prima volta, il suo aspetto fisico mi colpisce immediatamente: è un ragazzone di 17 anni, molto alto, con un colorito olivastro e la testa ciondolante sul corpo gigantesco mosso da movimenti scoordinati. I lineamenti del viso appaiono alterati, gli occhi, marcatamente obliqui, esplorano me e l’ambiente con curiosità mista a diffidenza. Mi saluta dandomi la mano in maniera goffa e bofonchiando qualcosa con un vocione grosso che produce rumore più che un suono intellegibile: sento subito una sottile angoscia probabilmente indotta dal prefigurarmi la difficile impresa di contattare quegli “stati inaccessibili” di una mente primitiva, in “statu nascendi”.
Anche se tutto lo spazio, sia il mio interno che quello esterno, appare occupato dalla sua presenza, Camillo in realtà non è solo, ma con la madre che, nel colloquio, si appropria della maggior parte del tempo per raccontarmi di lui, della sua precedente terapia perché “gli era venuta la mania dei treni e dei viaggi per cui a un certo punto prendeva e partiva senza avvisare”, aggiunge che è stato bocciato perché non capito dagli insegnanti ed è riuscito faticosamente a finire le medie. Ora non sta frequentando niente e passa il tempo a disegnare strade e labirinti tranne quando frequenta un centro religioso di ricreazione. “Camillo dovrebbe venire qui per tirarsi fuori del tutto”.
Camillo si inserisce sporadicamente nel discorso della madre, sottolineando quanto ami viaggiare e quanto gli piacciono le strade, inoltre precisa che da me verrà per imparare a scrivere bene. Faccio molta fatica a comprendere le sue parole, non capisco se è per un difetto di fonazione o per il marcato accento meridionale, d’altra parte anche lui fa fatica a capire me, devo ripetergli lentamente le domande. Siamo come due stranieri che si trovano in un luogo dove non si parla una lingua comune, il nostro idioma è tutto da costruire.
Decido comunque di lavorare con lui, il perché non è semplice da scoprire, probabilmente sono affascinata da questa mente bambina in un corpo troppo grande che mi riporta alla mente Abel Tiffauges, il gigante descritto da Tournier ne Il re degli ontani, personaggio così ricco di manie e segreti che, nel romanzo, ha la funzione di un novello S. Cristoforo.
Mi chiedo allora quale sia il segreto di Camillo, quale persona/situazione deve portare/sopportare sulle sue spalle robuste. Sento nei suoi confronti un moto di tenerezza mista a paura, ed è con questo insieme di emozioni che mi accingo ad affrontare l’ignoto con lui. Iniziamo così il nostro “viaggio” accomunati da presupposti di incertezza, fatica, curiosità, diffidenza, quasi di fatalità.
Camillo fin dalla prima seduta rivela la sofferenza del suo mondo interno, vorrebbe mettersi in contatto con me, ma la sua mente e le sue parole sono frammentate e ingarbugliate, le frasi escono confuse, salta da un argomento all’altro, la sintassi sembra non conoscere punteggiatura e consequenzialità, è una ridda di parole che si rincorrono senza interruzione, apparentemente senza legame tra loro, come soffiate fuori da una cisterna piena di emozioni non elaborate, sono parole-corpo, tutto è allo stesso tempo molto diretto, ma proprio per questo anche inceppato.
Emerge subito la passione per i viaggi e le partite di calcio che Camillo descrive con una meticolosità cosi ossessiva che è molto difficile seguire, l’andamento dei suoi pensieri segue una logica interna, un dialetto intimo che io ancora non conosco. Mi inonda il suo parlare tutto d’un fiato e con tono monocorde, di strade, treni, tram, percorsi, incroci, coincidenze, gallerie, orari di partenze e di arrivo, mi sento la mente congestionata, fatico a seguire il suo discorso che è come il labirinto che Camillo disegna ossessivamente tutte le mattine a casa e che definisce “strada senza uscita”.
Forse ho paura di perdermi in quel groviglio di strade, allora sento il bisogno di aggrapparmi a qualcosa e il filo di Arianna consiste nel trovare un senso per me logico in mezzo al caleidoscopio delle sue parole e tradurglielo attraverso un enunciato minimo: soggetto, predicato e complemento, cercando di comunicargli in questo modo la mia comprensione di quello che forse passa confuso anche in lui. Anche in seduta disegnerà un labirinto che è la puntuale rappresentazione grafica dei suoi pensieri, pensieri-corpo-affetti, scopriamo infatti che quel guazzabuglio di vie, incroci e sottopassaggi rappresentano luoghi affettivi, il luogo di lavoro della madre, il percorso e i tram che lo conducono da me, lo stadio e Roma, città della sua squadra del cuore. È così ossessionato dall’idea dei viaggi e il desiderio è così imperioso che la fantasia è vissuta come una reale trasgressione tale da meritare una punizione.
Inizieremo un’attività che chiameremo “i viaggi immaginari” dove Camillo può disegnare i percorsi dei viaggi desiderati, guardare cartine geografiche, fotografie di città “facendo finta” di viaggiare e questo sarà il nostro primo segreto. Camillo disegna su fogli da pacco bianchi sdraiato sul pavimento di cui occupa tutto lo spazio col suo grande corpo e intanto racconta i viaggi-fuga agiti prima dell’inizio della terapia: “da piccolo ho sempre avuto la passione dei treni … viaggio stando in piedi nel corridoio con giù il finestrino per guardare le curve e anche per guardare nelle gallerie se non sono troppo lunghe”.
Lo stile dei suoi racconti di viaggio è sempre quello del disordine verbale e della ossessività con cui parla delle reti ferroviarie, dei numeri dei treni, degli orari… Mi attacco alla parvenza di filo logico del suo racconto e glielo ripeto con una esposizione semplice, lineare, che rispetti la cronologia degli avvenimenti e alleggerisca la pesantezza della compulsività.
Dal punto di vista del contenuto i suoi viaggi pare rispettino un pattern comune: all’inizio c’è un sentimento di abbandono e di rifiuto per cui si scatena una rabbia forte e violenta da essere incontenibile, tanto da doverla immediatamente evacuare attraverso la fuga. Si verifica allora il placarsi della tempesta interna e la rassicurazione di una rinnovata unione con l’oggetto frustrante attraverso la rivisitazione di luoghi che Camillo ha realmente visto coi genitori quando era bambino e felice con loro. Questo modello si realizza anche con me quando, in occasione della nostra prima separazione a Pasqua, Camillo fa la fantasia che qualcun altro userà la sua ora e durante le vacanze scappa a Trieste, luogo visitato con la madre quando aveva tre anni. Al rientro riporto questa fuga a noi due, al fatto che non ci siamo visti per una settimana e che questo può averlo fatto sentire abbandonato per cui si è arrabbiato molto.
L’ascoltare e condividere l’esperienza dei suoi viaggi restituendogliela in modo da poterne riconoscere il significato emotivo sotteso, fa sì che Camillo inizi a riconoscere le sue emozioni e a non aver bisogno di scappare come al solito. Mi dirà: “lunedì sono andato a casa direttamente da qui, non sono andato alla stazione, è per quello che ieri sera le avevo telefonato, per dirglielo, ma lei non c’era… ho pensato che era andata a trovare suoi parenti perché venerdì non ero venuto”. Gli dico come abbia pensato che mi sentissi abbandonata da lui venerdì e che, per la rabbia, fossi scappata come fa lui quando si arrabbia. Aggiungo che apprezzo lo sforzo che ha fatto nella lotta della mente (scappare/non scappare) e che capisco il suo desiderio di telefonarmi per comunicarmi e condividere con me la gioia della vittoria.
Camillo farà il disegno della lotta della mente e, per un certo periodo io dovrò tenere il punteggio come se fosse una partita di calcio. Avviene intanto una modificazione nei suoi disegni, al posto delle linee ingarbugliate e dispersive dei soliti percorsi inizia a rappresentare degli insiemi che hanno corrispondenza biunivoca, mostrando che in lui è avvenuto un cambiamento, come la costruzione di una rete comunicativa e il riconoscimento del legame. “Vorrei fare degli insiemi, per esempio Mariani e Camillo, ma non perché sono fidanzati, ma perché io vado da lei e lei viene da me …”.
L’aver costruito l’insieme spazio affettivo-spazio mentale gli permetterà di far emergere l’angoscia di morte: “nell’84 nella galleria è scoppiata la bomba… ho visto i morti e i feriti alla televisione … poi c’è stata un’altra strage nelle gallerie quando sono nato io…”, e poi la paura della violenza in sé e negli altri: “ho paura di quelli col manganello … magari la polizia mi scambia per uno del Milan … quando la polizia sta alle spalle in borghese…” e anche si manifesta l’angoscia della follia: “se adesso venisse un’autoambulanza o l’ufficio d’igiene e vedesse il disegno direbbe che sono pazzo?” Nel nostro viaggio si alternano tra di noi periodi di vicinanza a clima di stanchezza: “il gioco parla di me e io voglio mantenere il segreto, anche lei ha i suoi segreti …”.
Nelle sedute successive parliamo del suo segreto: “è sempre scappare” quando per esempio i compagni lo prendono in giro, perché “mi viene come da soffrire”, aggiungo allora che forse i suoi segreti sono i sentimenti e Camillo annuisce. Attraverso i giochi condivisi sperimenterà le più svariate emozioni, potrà esprimere fantasie e desideri perché protetto dalla situazione ludica, realizzerà il coinvolgimento del corpo attraverso la manipolazione degli oggetti e l’eccitazione della competizione. Tramite gli accadimenti affettivi nella nostra relazione, Camillo potrà vivere la presenza e l’assenza, la vicinanza e la solitudine, potrà contattare pensieri dolorosi e pensieri gioiosi, pensieri che probabilmente non hanno avuto l’opportunità di essere pensati precedentemente, ma che sono stati espulsi tramite i viaggi-fuga.
E lo scappare è il segreto che ha racchiuso i suoi pensieri impensabili e le emozioni ingestibili, ma i viaggi esprimono anche altro, forse il desiderio di conoscere l’interno del corpo materno/galleria, probabilmente costituiscono una prova di forza, il riempimento di un buco esperienziale, una dimostrazione di autonomia. Il sintomo-fuga può essere stato la sua valvola di salvezza per salvarsi da un legame mortifero, dal soffocamento di un cordone che stringeva sempre più forte, da un sentimento di non-esistenza, da uno spazio-spasmo che lo costringeva in una dimensione asfittica. Una strategia “altra” di sopravvivenza.
D’altra parte, non siamo tentati tutti di fuggire, ognuno con la propria modalità, quando la realtà ci sta troppo stretta o la sentiamo ustionante?