Molto spesso al malessere è associato un vocabolario bellico, quasi come che il male fosse un nemico che ci si para davanti lungo il cammino e con il quale siamo costretti a imbastire una guerra, a volte lunga tutta la vita.
Io non sono molto convinta che le cose stiano esattamente così e la mia esperienza di coaching nel tempo mi sta consegnando una visione un tantino diversa. Per me la cura, l’unica vera soluzione (dal latino solvere, quindi diluire, ammorbidire,) è l’amore. Solo che reagiamo in malo modo davanti a una simile affermazione, perché abbiamo poche idee e spesso confuse a riguardo.
La mente si cortocircuita immediatamente e va a pescare nozioni melense, impastate di romanticismo usa e getta: niente di più lontano da quanto sto cercando di dirti. La cura dei nostri mali è l’amore, dicevo, inteso come capacità di accogliere, sciogliendo nodi, mettendo insieme i pezzi di un senso d’identità spesso frammentato, appunto, quindi sofferente, in cerca di significati che sappiano ricucire gli slabbri di un’esistenza tenuta a largo da se stessi e dagli altri.
In questo processo di accoglienza si fa strada l’idea che la cura passi per la capacità di arrendersi (tutto il contrario di un atteggiamento bellico, non trovi?) abbassando le difese del giudizio, facendo spazio, diventando flessibili, rotondi, accoglienti anche e soprattutto verso ciò per cui proviamo resistenza. L’insegnamento di base lo offre la natura, io non dico niente di nuovo, mi limito solo a osservare e a coglierne alcuni aspetti con te.
Hai mai provato a guardare un agrifoglio in natura? Finché l’albero è giovane, quindi piccolo, i suoi rami, facilmente attaccabili dagli animali che potrebbero brucarlo, si riempiono di foglie acuminate, decisamente poco invitanti e molto pungenti. Man mano che l’albero cresce, le foglie si arrotondano, si ingentiliscono, non hanno più bisogno di difendersi. Stessa sorte capita all’edera che finché striscia ha la foglia con la caratteristica forma triangolare, volta a scoraggiare l’attacco dei predatori. Man mano che la pianta cresce e si avventura su per gli alberi, la foglia non solo perde la sua forma acuminata ma ne acquista una cordata, ovvero cuoriforme. Cosa ci sta dicendo la Natura? Ci sta insegnando che finché siamo piccoli, vulnerabili, facilmente manipolabili e attaccabili, abbiamo bisogno di un apparato difensivo, di metter su aculei, spine, forme appuntite che scoraggino l’avvicinarsi dei predatori. Man mano che cresciamo, non solo anagraficamente, acquistiamo consapevolezza, capacità di discernimento che passa anche per l’imparare a concedersi, a offrirsi alla vita e a volte anche ai suoi predatori, perché abbiamo compreso la legge di Natura e la abbiamo integrata nel nostro cuore.
La cura dunque è l’amore, il fluire, il diluirsi nel flusso della vita, degli incontri, delle persone, correndo certamente anche il rischio di venirne a tratti travolti ma con la sensazione di essere parte di un ritmo, di un alito vitale. Spesso accade invece che le persone che abbiano sofferto abbiano anche eretto muri di cinta inarrivabili, per lo spavento di essere raggiunte e quindi nuovamente ferite e questo atteggiamento a lungo andare crea malessere.
Il problema sai dove sta? Nel fatto che quei muri impediscono anche di vivere e di essere raggiunti dall’amore: relegano in uno spazio di non vita nel quale non si sviluppano gli anticorpi necessari per diluirci, appunto, nella complessità del vivere e nel quale è sempre più difficile muoversi ed esprimersi. Da questo punto di vista, capirai che un atteggiamento di lotta, di rifiuto, di chiusura in genere finisce con l’alimentare ancora di più questo senso di separatezza che è all’origine stessa del malessere. Come uscirne?
Intanto dando un nome ai problemi che ci angustiano, riconoscendo (spesso con l’aiuto di un terapeuta o anche di un amico con una buona capacità di scolto) l’origine del nostro malessere. In secondo luogo iniziando un percorso di autoascolto e autoguarigione, che passi per la meditazione o le passeggiate in natura a passo lento: tutte attività capaci di riconnetterci al contesto e di far risorgere in noi una sana sensazione di appartenenza la cui perdita, molto spesso, è all’origine delle nostre sofferenze.