Pesca miracolosa
La prima immagine è quella di un bosco di montagna, una strada che serpeggia tra le conifere odorose costeggiando un torrente impetuoso. Poi pioggia, pioggia insistente come solo in montagna d’estate succede.
Rallento l’andatura dell’automobile perché non si vede nulla, eppure il rifugio dovrebbe essere a questa altezza, ancora una curva e... improvvisamente mi trovo di fronte a una scena onirica, decine e decine di grosse trote argentate si agitano sulla strada e, sfruttando la corrente dei rivoli d’acqua creati dalla pioggia, cercano di raggiungere il fiume. Alcune riescono, la maggior parte resta nel fango a dibattersi, altre ancora, immobili, sembrano già aver rinunciato alla lotta per sopravvivere. Non si tratta di un sogno ma è realtà.
Scendo dalla macchina e ne afferro una bella grossa e senza esitazione la infilo nello zaino. Poi ne prendo un’altra. Recupero un pezzo di legno e come in una mattanza comincio a colpire all'impazzata cercando di catturarne più possibile, preso come da un impulso atavico, come si vede in certi documentari di pescatori africani quando le reti vengono svuotate sulla spiaggia e tutti i membri del villaggio partecipano alla cattura dei pesci e anche i bambini non si tirano indietro.
Il giorno dopo ho scoperto il mistero di quella strana presenza di pesci fuor d’acqua: la vasca esterna del vicino ristorante a causa della pioggia copiosa era tracimata creando così un'inaspettata e miracolosa via di fuga.
Ricordo napoletano
Lungomare di Napoli, ragazzetti armeggiano tra gli scogli mentre con gesti e urla ne chiamano altri che sono impegnati poco distante, lungo la strada. Per terra due grossi catini pieni d’acqua con polipi vivi. Per pochi euro si possono comprare. Scatta il semaforo e riparte il traffico di automobili dirette al porto. Alle mie spalle la linea dell’orizzonte blu del mare, le isole velate nella luce del mattino. E ancora le urla dei ragazzi, forse una nuova cattura. Il traffico le copre, impietoso.
Padre pescatore
Due cose mi ha insegnato mio padre, a nuotare e a pescare. Ci sono giorni in cui ho la sensazione che nella vita non ci siano cose più importanti da sapere. Quando dico nuotare non mi riferisco a qualche tecnica, di quelle che si vedono nella pratica agonistica dei nuotatori da piscina, ma essenzialmente a una naturale acquaticità e al piacere dell’immersione del corpo nell’acqua, indifferentemente che sia mare, lago, fiume, piscina.
Mio padre era un formidabile nuotatore, capace di apnee che ai miei occhi di bambino avevano del prodigioso. La nostra attività preferita al mare era il gioco del sommergibile: si nuotava al largo dove non si vedeva più il fondo - che blu indimenticabile!- e poi, al segnale convenuto, io afferravo saldamente le sue spalle, prendevamo tre grossi respiri simultaneamente e si andava sotto.
In vita mia non ho mai provato la gioia di nuotare insieme ad un cetaceo e credo che l’emozione sia simile, anch’io per certi versi mi affidavo a una creatura marina, sentivo la leggerezza e la forza di quell’impulso verso le profondità. Appena esaurivo la mia riserva d’aria mollavo la presa e - con un certo dispiacere - risalivo in superficie. Fortunatamente il gioco veniva ripetuto più volte e c’era sempre la sensazione di essere riusciti a giungere più in profondità, di essere riusciti ad afferrare una tonalità di blu ancora più intensa. Un uomo come mio padre non poteva non sapere anche di pesci e di pesca. Non era un pescatore della domenica, piuttosto l’avrei definito un pescatore istintivo, primitivo. Che si trattasse di mare, lago o fiume, lui sapeva dove stavano i pesci.
Nel mare, per esempio, era l’ora giusta che faceva la differenza non meno del posto. Una giornata di vento e onde diventava il momento propizio per catturare certe specie che solo in quei momenti si avvicinavano a riva. La semplicità del suo pescare stava anche nell’attrezzatura, spesso solo una lenza avvolta intorno ad un grosso sughero, oppure le esche, sempre diverse, carnosi mitili trovati sugli scogli, vermi della sabbia o i suoi leggendari pastoni fatti con pane ammollato, farina e formaggio avariato - i pesci ne andavano pazzi.
A proposito di esche ricordo un’estate in cui ci eravamo ritrovati a camminare in Austria, in un bellissimo bosco. La calura estiva era mitigata dalla presenza di un torrentino limpido e rumoroso che scorreva accanto al sentiero. A un certo punto la nostra attenzione fu colta dalla presenza di pesci in una pozza più profonda. Purtroppo nessuno aveva pensato alla pesca e quindi, per mancanza di attrezzatura, sapevamo che non se ne sarebbe fatto nulla.
È stato a quel punto che mio padre, rovistando nello zaino, aveva recuperato un rocchetto di filo di nylon e subito si era messo a piegare e modellare una graffetta per trasformarla in un rudimentale amo. Ma il bello doveva ancora venire: quando abbiamo cominciato a pensare all’esca mio padre con una delle sue grandi mani aveva agguantato una mosca e l'aveva infilata viva sull’amo. Nascosto da un roccione pieno di muschio l’avevo visto roteare con delicata precisione la lenza leggera (non c’era nessun piombo) e far sì che la mosca si depositasse sull’acqua come spinta da una folata di vento. Non erano passati cinque secondi, che vedemmo un guizzo e l’acqua agitarsi mentre mio padre, tutto rosso in volto e sorridente, aveva tenuto ben salda la lenza quasi invisibile. Una bella trota lunga oltre due spanne combatteva per la sua preda e noi non di meno, pur sapendo che con quella attrezzatura le probabilità di riuscita erano poche.
Ma la fortuna fu dalla nostra parte: mio padre era uscito allo scoperto e si era messo a livello dell’acqua e ciò aveva ridotto la tensione della lenza. In questo modo alla fine era riuscito ha portare la trota a riva e buttarla fuori, sull’erba. Non dimenticherò mai la livrea di quel pesce, c’erano tutti i colori dell’arcobaleno. L’abbiamo avvolta tra foglie di felce e dopo averla messa nello zaino abbiamo proseguito la nostra escursione.