Il selfie ha ucciso il piacere di farsi ritrarre da altri e quindi di farsi interpretare. La marea di foto di cibo postate ovunque iniziano a far venire il mal di stomaco. La fotografia digitale scaricata sul computer ha soppiantato gli album con i ritratti di famiglia, affidando i ricordi all’a-materico cloud. E la famiglia, poi, non è più la stessa, cara signora!
Quattro assiomi che raccontano un pezzo del nostro tempo, in Occidente. Senza giudizio, oppure sì, senza nostalgia, oppure sì. Tanto la realtà resta questa: mutata rispetto a ieri, già diversa rispetto a domani. Fagocitati non tanto dal cambiamento, ma dalla bulimia con cui si approccia. Così viene voglia di staccare, mettersi in modalità pausa. Il tempo necessario per un ricalcolo. Ed è un po’ questa l’occasione offerta a chi partecipa al prodromico progetto Oikos - che in greco significa famiglia/casa. Un’idea di Sara Casiraghi, gastronoma semiseria-le laureata in psicologia che apparecchia progetti legati al cibo e alla felicità, affiancata da Marco del Comune, socio del progetto, foodografo buongustaio armato di Nikon d800 per raccontare piatti e persone.
L’avventura è iniziata a gennaio di quest’anno, a Milano nel quartiere NoLo (l’area a Nord di piazzale Loreto), zona in continua trasformazione con anima meticcia. «Ogni famiglia ha un segreto e il segreto è che non è come le altre famiglie, scrive lo scrittore inglese Alan Bennett parafrasando Tolstoj e, un po’ perché è una mia fissa, un po’ perché il concetto di famiglia racchiude l’idea di società – spiega Sara Casiraghi – ho pensato che mai come in questa epoca di trasfigurazioni fosse altamente “gustoso” ritrarre la pluralità dei nuclei familiari intorno a un tavolo, in cucina, set principe dello stare tra parenti di sangue o no… E al nostro desco domestico fino a ora si sono ritrovate famiglie allargate, famiglie di amiche, famiglie monogenitoriali che formano piccole comunità e famiglie tradizionali. È un progetto in evoluzione – prosegue Sara - al quale teniamo molto e che ogni volta ci offre spunti di riflessione, nuove conoscenze, sorrisi. E stiamo valutando di portarlo anche in altre città».
Le cene si tengono ogni terzo martedì del mese e succede questo: nella grande cucina attigua allo studio del fotografo arrivano massimo sei commensali, previa precedente prenotazione. S’inizia con un brindisi e il primo ritratto fotografico della famiglia di quella sera. Poi si dà il via alla cena che Sara cucina espressa. Il menù è un classico composto di antipasto, primo, secondo e dolce con una peculiarità: le ricette sono tutte tratte dal Talismano della felicità, scritto da Ada Boni che «oltre a essere il libro del mio cuore è anche il ricettario di famiglia per eccellenza dal 1929», precisa Sara.
Cuoca e fotografo restano in disparte, discreti ma in zona, lasciando che intorno al cibo si ri-crei un’intimità domestica, si sciolgano impacci, timidezze, formalità grazie al palato titillato dai manicaretti e dai sorsi di vini profumati. Così, lentamente, un po’ come nel pranzo di Babette, i nuclei a geometria variabile e composizione contemporanea finiscono per sentirsi “a casa” e si ritrovano a ripescare ricordi e lessico privati, piccoli tic e affettuosi sberleffi «proprio come accade nei pranzi di famiglia che si hanno nel cuore», racconta Sara.
Un’alchimia che a fine cena Marco del Comune cattura in un secondo scatto. A serata gli ospiti, qualunque sia la loro parentela, tornano a casa satolli, con un sorriso, un ricordo in più e due stampe con il ritratto della famiglia che li rappresenta: quella che ha dato loro la vita, quella che hanno scelto, quella alla quale loro hanno dato vita, perfino quella che avrebbero voluto avere e che per una sera magicamente hanno potuto inventarsi.
La spinta che porta le persone a regalarsi queste cene è l’intimità: non vai al ristorante ma in una casa, però non cucini e te ne vai coccolato, col palato soddisfatto e due foto ricordo frutto non di uno scatto casuale, ma di un vero ritratto d’autore che interpreta quella famiglia e che, quindi, consegna un racconto e per giunta a una modica cifra. Una serata dal valore simbolico, poetico, affettivo e perfino sociale.
«La famiglia, l’ho detto, è un po’ una mia fissa – spiega Sara Casiraghi – e qualunque essa sia rappresenta sempre il nostro punto di partenza. Io ne ho avuta una borghese, che mi ha permesso di vivere nella Torino bene, con una madre molto emancipata, esempio positivo di donna indipendente. Però non cucinava mai e quando accadeva erano cibi precotti. La mia ribellione giovanile è passata dalla cucina. Ho iniziato a fare la cuoca casalinga da ragazzina, preparando pranzi e cene in casa degli amici di mamma e papà: una provocazione come quando iniziai a fare la lavapiatti nei ristoranti il sabato sera. Poi mi sono iscritta all’università – prosegue Sara – a psicologia, salvo capire a laurea conseguita che ero molto meglio come paziente che come medico e ho appeso il camice al chiodo. Oggi, invece di analizzare gente sul lettino, osservo le relazioni a tavola e comprendo molto dell’umanità, divertendomi anche».
Cibo come grimaldello, consolazione, sfida: Sara non ha ancora compiuto 40 anni e ha già cucinato 1900 ricette del Talismano della felicità, (che ne conta duemila) «mi ha ispirato il film Julie&Julie e infatti tengo il diario sul mio blog aperto nel 2011 che si chiama pentolapvessione, dove la v al posto della r non è un errore: è scritto come lo pronuncio io, che ho la r super moscissima…quasi non c’è», spiega con un’autoironia che non le fa difetto e sulla passione culinaria aggiunge: «buttarsi sul cibo per la mia generazione deve essere stata l’unica opportunità, visto che non siamo nati per generare grandi opere né per fare gli astrofisici. Ai fornelli invece ce la caviamo benino».
Sara Casiraghi viene al mondo nella primavera del 1979 quando Gualtiero Marchesi introduce la nouvelle cousine in Italia e il fast food sbarca anche da noi. «Figlia di una contraddizione, nel tempo ho però fatto begli incontri: Ada Boni è diventata la mia amica immaginaria e di recente è arrivato anche l’alter ego di Ada, Ugo Tognazzi. Lei molto dabbene, lui con le ricette dell’Abbuffone porta maschia ironia. A lei dedico il quarto martedì del mese a casa mia, lui invece “lo apparecchio” il primo martedì di ogni mese in una piola a Torino. Titolo delle serate: Come se fosse antani. Con le ricette stravaganti e ante litteram del grande Ugo riproponiamo la stessa goliardia – documentata anche dai racconti di Paolo Villaggio – che Tognazzi teneva nella sua casa laziale, sottoponendo sperimentazioni culinarie agli amici ai quali poi chiedeva di votare secondo questi parametri: straordinario, sufficiente, insufficiente, cagata, grandissima cagata. E lo facciamo anche noi a fine cena. Al tavolo massimo 30 persone che spesso si conosco per la prima volta in quella circostanza. C’è tanto divertimento».
Il lavoro come gioco: Sara fa parte di quella generazione in bilico tra il lavorare meno/lavorare tutti e il precariato quotidiano. Affronta entrambe le cose con inventiva, seppure con fatica «sono una cazzara: gioco, ma per vivere mi capita anche di dare ripetizioni d’italiano ai liceali». Oggi però lavora più o meno stabilmente all'AstraCafé del TeatroAstra a Torino, dove accoglie il pubblico teatrale prima e dopo gli spettacoli: «mi piace molto l’ambiente ed è un esperimento professionale molto appagante». Le chiedo perché non ha frequentato nessuna scuola da chef: «Mi sento una cuoca casalinga. Lo chef è un lavoro durissimo con ritmi serratissimi e vita relazionale limitatissima. Io voglio godere, vivere».
È una gastronoma sui generis che si diverte a sperimentare: ha costruito diversi progetti vincenti come per esempio nel 2010 Torino spiritualità, prima esperienza di cena con scarti alimentari, 1000 persone a tavola. Allora non lo faceva nessuno. «La cucina per me non è il cuoco che predomina sul piatto, non il cibo estetico, ma il cibo come strumento per stare insieme. Il narcisismo è una deriva sociale della sottocultura contemporanea che attraversa tutti i settori. A me interessa ciò che si sviluppa dietro, intorno al cibo, non parlare di quel che c’è nel piatto, ma osservare come una pietanza ben cucinata fa fluire le emozioni tra i commensali. Anche perché mangiamo e poi facciamo la cacca: l’importante è parlarne senza esagerare. Parlarne in continuazione non è educato».