È un film di Kenneth Lonergan in cui il regista si è addentrato come in un interminabile sogno da cui faticava a svegliarsi, durava circa tre ore, ma i produttori, tra cui Sydney Pollack, avevano posto un divieto per l’eccesso di lunghezza, è così iniziato un conflitto col regista che, immerso nelle tematiche adolescenziali, non ne voleva venir fuori, né voleva tralasciare niente, come se si sentisse imprigionato nella riattivazione della sua adolescenza e sentisse il bisogno di risignificarla. Ci sono voluti anni per arrivare a un patteggiamento. Quasi ripetendo le dinamiche tra genitori e figli nel sostenere le proprie posizioni.
La trama del film prende in considerazione un momento specifico della vita della protagonista, Lisa, un momento speciale che segna il volta pagina, il cambiamento dall’età infantile a quella adolescenziale. È pensato come cambiamento catastrofico nel senso bioniano, un cambiamento cioè che implica una ricerca della verità ultima non tanto basato sulla conoscenza, ma più sull’esperienziale, sull’essere, sul divenire.
Le prime sequenze del film mostrano una fiumana di persone che camminano inarrestabili e impassibili verso una non-meta, quasi vittime inconsapevoli di un moto perpetuo; la scena inquietante è ripresa al ralenteer e, nella sua inesorabilità, dà l’idea dello scorrere della vita, della quotidianità, della normalità ottusa che non si accorge o che nasconde, tramite le banalità del vivere, le tragedie che si sviluppano dietro e dentro il singolo individuo.
La camminata in sospensione della folla cittadina, che pare senza peso, senza gravità, compatta nel fare muro contro il dolore insostenibile della vita, ma che ugualmente traspare dal piombo dell’incedere, è resa ancor più angosciante dalla presenza di Lisa che, immersa in questo flusso disumano di persone che ondulano in un ritmo indifferenziante, la rende un’anonima conosciuta e, proprio per questo, dà una forte sensazione di perturbanza. E Lisa, confusa nella folla, nasconde in sé un tormento, un’inquietudine che è sì personale, ma che si può pensare, in senso lato, attribuibile all’età adolescenziale.
Margaret è un film che racconta l’universale della giovinezza, è una metafora che abbraccia l’umano e non si sofferma sulla singola persona, Margaret è il dolore di tutte le adolescenti alle prese con la paura della vita, col rischio che il crescere e il cambiamento comporta, Margaret può essere generalizzato come un racconto psicologico sulla crisi adolescenziale, come problema fase specifico e non solo di Lisa, la protagonista del film. Infatti il titolo, Margaret, non è il nome di un personaggio, ma è il nome del film. Margaret è una ragazzina a cui il poeta G. M. Hopkins dedica una poesia intitolata Primavera e autunno in cui preannuncia alla fanciulla in fiore, il cammino della vita che la porterà verso l’autunno dove si perdono le foglie, simbolo del dolore. E la storia di Lisa è paradigmatica della storia interna di ciascun adolescente.
Il tutto parte dal desiderio di un cappello da cowboy per essere all’altezza dell’invito del padre in Messico per passare una vacanza con lui, vacanza temuta e idealizzata allo stesso tempo. Il cappello diventa un’idea fissa, lo cerca ripetutamente invano. Lisa lo vede inaspettatamente addosso al guidatore di un autobus e allora rincorre l’uomo, lo chiama ed è così seduttiva che lo distrae tanto da non fargli vedere il semaforo rosso e da investire una donna che morirà.
Questa è la tragedia che accompagnerà tutto il film, tragedia che brutalmente ricalca il dramma edipico: la triade, padre, madre e figlia, il rapporto privilegiato tra padre e figlia che esclude la madre, facendola fuori. Tutto il film scorre sui due binari quello della realtà e quello del mondo interno, binari che si incontrano e si sovrappongono dando un’intrigante visione binoculare agli accadimenti.
L’incidente, simbolo della trasgressione incestuosa, susciterà in Lisa un forte senso di colpa, tanto che se all’inizio con la polizia sosterrà che il guidatore era passato col verde, man mano che passa il tempo l’idea che l’uomo deve pagare il suo errore diventa un’ossessione e la ragazza è in una rincorsa affannosa per arrivare a questo obiettivo. È significativo come si evidenzi bene che il rapporto edipico si sostanzi dell’amore pre-edipico per la madre, l’ambivalenza è resa dal forte trasporto che Lisa sente per la donna dell’incidente, dal pensiero che ha per lei (tra l’altro Lisa ha lo stesso nome della figlia morta della donna) e di come viva in maniera drammatica il rapporto con sua madre, madre che cerca, che sente lontana, ma allo stesso tempo così vicina quasi da confondersi con lei.
Nel dipanarsi della trama e in questa ricerca affannosa della verità sono messi in gioco e metaforicamente drammatizzati tutti gli aspetti che connotano il mondo adolescenziale. Evidente dunque è la ripetizione della questione edipica-cappello da cowboy-simbolo paterno- simbolo fallico, di potere. Con il conducente di autobus-sostituto paterno, il cliché che si ripete è la seduzione, la connivenza, il senso di colpa, la ricusazione, l’attribuzione di responsabilità, la vendetta: “ti senti in colpa per l’incidente? … ci stavamo guardando, lo so che ti stavo distraendo, e l’autobus è passato col rosso”.
Gli uomini (padre, conducente, prof di matematica, i ragazzi con cui si sperimenta) sono vissuti come deboli, in sua balia e alla fine li mette in ginocchio mostrando loro le loro nefandezze e in primis il padre che l’ha abbandonata e che ritiene colpevole della situazione familiare e del rapporto doloroso con la madre, il padre deve pagare la sua debolezza. Questa modalità verrà usata anche con il prof di matematica, anche con lui Lisa sembra recitare una parte “è stata colpa mia”, è sempre lei a sedurre, a fare il primo passo, però poi vuole penalizzare l’altro perché non è in grado di contenerla, di farla rientrare nelle regole. Il conducente è inconsciamente vissuto come perverso, ha fatto altri incidenti, così come il padre ha avuto incidenti di percorso nella vita, non si è comportato bene con la famiglia, ma lei lo ha amato, glielo conferma telefonicamente “ti voglio bene”, condividono medesime difficoltà , ma nonostante le affinità elettive lui ha tradito, ha scelto un’altra donna, ha abbandonato, è colpevole.
Così come inizialmente lei è connivente col conducente/padre “è stato SOLO un incidente” e arriva a mentire per amor suo, poi prevale il senso di colpa e l’odio per la mancanza di responsabilità dell’uomo/padre, non gli perdona la leggerezza di avere ucciso la donna/madre, deve pagare. La donna investita, in fin di vita, scambia allucinatoriamente Lisa con la propria figlia, accomunate realmente dal nome e, in questo passaggio, la sovrapposizione della realtà col mondo interno è tangibile, “la prego non mi lasci” è la supplica straziante della ragazza, grido che simbolicamente sta per il vissuto abbandonico della madre, a cui chiede perdono e riconciliazione.
Lisa è macchiata dal sangue della donna, sangue che sembra indelebile, vischioso, fatica ad essere sciolto, si può associare al sangue del parto, delle mestruazioni, della deflorazione, dell’aborto, delle separazioni dolorose. Sangue reale e fantasmatico che colora l’adolescenza e questa angoscia è rappresentata dal sogno con l’immagine terrifica del rubinetto che sgorga sangue.
Il rapporto reale con la madre è di distacco, di incomprensione, ma anche di confusione. La madre è attrice di teatro e attualmente sta realizzando una nuova relazione sentimentale e il teatro si sovrappone tra Lisa e la madre, se una recita, l’altra fa le prove del Re Lear a scuola; anche Lisa sta sperimentando rapporti con l’altro sesso e la madre viene colta a masturbarsi, come se ci fosse uno scambio di ruoli; il rapporto tra le due sembra alla pari e spesso sembrano essere un’unica persona, non c’è separazione, devono ricorrere a delle scenate tragiche e piene d’odio per sentirsi differenziate.
Lisa si muove nella vita in continua oscillazione tra vicinanza e lontananza dalle figure genitoriali, in un’alternanza di sentimenti di odio/amore, dipendenza/autonomia, bisogno di contatto e desiderio di farcela da sola. Provocando l’incidente, metaforicamente Lisa oltre ad uccidere la madre edipica odiata, ha ucciso quella parte di sé che non accetta, la sua parte fragile, femminile, dipendente. Il conflitto con la madre sta anche per il conflitto interno di Lisa, lei e la madre come rappresentanti delle parti infantile e adulta della ragazza che faticano a trovare una integrazione. Il finale parla della riappacificazione di Linda con la madre, dell’incontro con lei, della riabilitazione della donna morta nell’incidente, ma anche della bonificazione della sua femminilità conquistata così a duro prezzo.
La scena finale del film è avvolta dalla bellissima musica de I racconti di Hoffmann di Hoffenbach. È un duetto di donne che parla delle gioie d’amore, Lisa e la madre assistono all’opera, quello che non hanno potuto le parole, lo può la musica che è al di là delle parole e che tocca in profondità Lisa che inizia a piangere. La madre se ne accorge stupita, la guarda, e poi le loro mani si stringono, si aggrappano e un abbraccio forte suggella la riconciliazione, la comprensione, la vicinanza nel dolore (tutte e due, inoltre, vengono dall’esperienza di due lutti importanti: la scomparsa del compagno della madre e l’aborto di Lisa) e la possibilità di comunicare e condividere le loro emozioni senza paura. L’abbraccio serve a lenire il senso di colpa, sono due solitudini che finalmente si incontrano. Questo abbraccio simbolizza anche la conquistata identità di Lisa, le sue parti si sono ricongiunte in un’unità che dà senso e completezza al suo essere diventata donna, adesso potrà incontrare il maschile senza sentirsi trasgressiva, ma con una femminilità bonificata.
... Non ha importanza, bimba, il nome:
le fonti del dolore sono sempre le stesse.
…
tu piangi per il guasto a cui l’uomo
nacque,
per Margherita piangi”.(G. M. Hopkins)