Negli ultimi mesi si è intensificato in Europa, e maggiormente in Italia in coincidenza con le recenti elezioni politiche, il dibattito sul pericolo di un ritorno al fascismo, come deriva estrema dei populismi e dei movimenti che in gran parte d’Europa si richiamano a simboli, parole d’ordine, dei regimi nazisti e fascisti che hanno devastato l’Europa nella prima metà del secolo scorso. In particolare, i segnali che hanno destato maggiore preoccupazione sono quelli della xenofobia, del razzismo, e in misura minore dell’antisemitismo.
L’esito delle elezioni politiche in Francia, Germania e Italia hanno parzialmente rassicurato circa il pericolo di un risorgere di movimenti che si richiamano esplicitamente a quei regimi (con l’eccezione della Germania dove il movimento di Alternative für Deutschland è riuscito a conquistare novantaquattro seggi in Parlamento), ma è pur vero che in Francia il partito della Le Pen ha conquistato al primo turno una massa di voti che gli ha consentito di partecipare al ballottaggio ed in Italia il partito della Lega fa parte della coalizione che ha raccolto il maggior numero di voti, pur non riuscendo a raggiungere la maggioranza parlamentare.
E dunque non è proprio il caso di archiviare frettolosamente il problema quasi che si sia trattato di un abbaglio collettivo e non invece un forte richiamo per l’UE a rafforzare i vincoli dell’Unione attraverso politiche sociali, economiche e finanziarie in grado di neutralizzare le spinte centrifughe e nazionalistiche che caratterizzano non solo i governi del Visegrad, ma anche quelli dell’Europa occidentale. In Italia, in particolare, i programmi e i proclami dei due partiti “vincitori”, se mai riusciranno, da soli o insieme, a raggiungere un accordo di governo, evidenziano una palese insofferenza nei confronti dei vincoli di bilancio, in particolare del rispetto del 3% del rapporto deficit-Pil, in nome del diritto dei governi nazionali a infrangere quei limiti per le esigenze di rilancio nazionale dell’economia. Da qui l’apertura di una situazione di conflittualità con BCE e UE che lascia presagire nuovi delicati problemi circa le sorti nazionali e quelli dell’Unione.
Se non è fascismo, siamo comunque di fronte al cosiddetto “populismo sovrano” o al “nazionalismo suprematista”, termini sostanzialmente equivalenti di fenomeni politici che si caratterizzano per una forte carica identitaria, fondata sulla superiorità rispetto a coloro che per lingua, religione, colore della pelle, cultura, appaiono estranei, diversi, come tali pericolosi per l’ordine pubblico e quello economico, per il potenziale inquinamento dell’identità culturale e religiosa del paese, delle sue tradizioni, della sua civiltà e, ancora, per il pericolo di essere portatori di azioni terroristiche.
Ha ragione Umberto Eco, quando, nel recentissimo libro Il fascismo eterno, che riproduce il testo di una sua lezione agli studenti della Columbia University del 25 aprile 1995, afferma a proposito del pericolo dell’eterno fascismo, “Sarebbe così confortevole, per noi, se qualcuno si affacciasse sulla scena del mondo e dicesse: 'Voglio riaprire Auschwitz, voglio che le camicie nere sfilino ancora in parata sulle piazze italiane'”. Ahimè, la vita non è così facile. L’Ur-Fascismo può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l’indice su ognuna delle sue nuove forme, ogni giorno in ogni parte del mondo”.
Le forme più o meno occulte sotto le quali si manifestano oggi le forme dell’autoritarismo sono esattamente quelle dei nazionalismi sovranisti o dei populismi sovrani. In fondo la storia ci ha già dimostrato che le legittime spinte nazionalistiche dell’Ottocento che hanno portato alla disgregazione degli Imperi centrali tedesco e austro-ungarico, si sono poi tradotte nella formazione di stati con forte accentuazione autoritaria se non dittatoriale, in Italia e Germania e poi in alcuni paesi dell’Est Europeo, come Ungheria e Romania in particolare. In quei casi, il nemico non veniva dall’esterno, ma venne individuato tra i cittadini di religione ebraica, ritenuti responsabili di complotti giudaico-massonici-plutocratici e meritevoli di persecuzione e di sterminio.
Già nell’Ottocento gli intellettuali avvertivano come gli stati nazionali fossero sinonimo di chiusura, intolleranza, conflitti. Tornano in mente le parole che Joseph Roth, nato a Leopoli, in Galizia, ai confini orientali dell’Impero austro-ungarico, cantore della finis Austriae, nel suo racconto Il busto dell’imperatore, fa dire al conte Morstin : “Io odio le nazioni e gli Stati nazionali. La mia vecchia patria, la monarchia sola era una grande casa con molte porte, molte stanze per molte specie di uomini. La casa è stata suddivisa, spaccata, frantumata. Là io non ho più nulla da cercare. Io sono abituato a vivere in una casa, non in una cabina”. Nel medesimo racconto, tanta è la sua nostalgia dell’impero perduto, cita la frase del poeta viennese Franz Grillparzer (1791-1872): “Dall’umanità alla bestialità attraverso la nazionalità” (giudizio feroce che precede di quasi un secolo le degenerazioni dei nazionalismi del novecento in Italia e Germania). La grande casa è stata ricostituita, è l’Europa unita, ma pare che gli abitanti del Visegrad vogliano ritornare ciascuno nella propria cabina.
Anche il grande scrittore ungherese Sandor Màrai nel suo libro, scritto tra il 1949 e il 1950, Volevo tacere, descrive con dolore il dramma del suo amato paese che, dopo essere passato da uno stato di democrazia liberale ad uno nazionalista, finisce con l’essere sottomesso, consensualmente, prima dalla Germania nazista e, dopo la guerra, altrettanto consensualmente, dall’URSS. Egli nutre la speranza che “se un giorno in Europa occidentale si avrà un’unione doganale fra territori più vasti, fra paesi diversi, o addirittura una moneta comune, già questo basterà a far sì che col tempo i confini nazionali diventino puramente virtuali, e neppure i popoli danubiani potranno sottrarsi al fascino di un simile esempio”. L’auspicio cede subito dopo al realismo e lo fa concludere che purtroppo “nessuno sarà disposto a rinunciare alle proprie aspirazioni nazionali scioviniste, nemmeno a costo delle lezioni duramente apprese di recente”.
Vogliamo concludere questa breve, ma significativa, rassegna dei giudizi che i migliori esponenti della letteratura contemporanea danno del nazionalismo con le parole dello scrittore peruviano Mario Vargas Llosa, premio Nobel per la letteratura nel 2010, in una intervista pubblicata sul Corriere della Sera del 23 dicembre 2017, definisce ogni nazionalismo come “cavernicolo, anacronistico, antistorico”, per poi affermare “il nazionalismo è la tragedia della storia”.
Restituiamo la parola alla politica, quella più nobile e lungimirante, non quella che cerca facili consensi instillando paure e offrendo facili obiettivi per l’odio e l’intolleranza, quali i migranti e i diversi. La diamo a Luigi Einaudi, che in un discorso pronunciato davanti all’Assemblea costituente il 29 luglio del 1947, affermava: “Il nemico numero uno della civiltà, della prosperità, ed oggi si deve aggiungere, della vita stessa dei popoli, è il mito della sovranità assoluta degli Stati. Questo mito funesto è il vero generatore delle guerre, arma gli stati per la conquista dello spazio vitale, pronuncia la scomunica contro gli emigranti dei paesi poveri, crea le barriere doganali, e, impoverendo i popoli, li spinge ad immaginare che, ritornando all’economia predatoria dei selvaggi, essi possano conquistare ricchezza e potenza”.
La realtà del nostro tempo, nonostante gli alti richiami alla ragione, offre un panorama di internazionale autoritaria che allarga i suoi confini anno dopo anno e tocca molti europei, trai quali anche l’Italia. C’è da chiedersi allora se il ritorno a regimi populisti e come tali potenzialmente autoritari non manifesti un limite interno alle democrazie, quasi che esse contengano in sé il germe della precarietà, della dissoluzione, dell’involuzione autoritaria.
C’è da chiedersi se abbiamo avuto la fortuna di vivere una tra le poche, brevi, parentesi di pace, di democrazia compiuta, di cittadinanza, di progresso civile, sociale, economico e culturale. Se siamo destinati a un futuro che rinnova il passato, di dittature, di chiusure, di conflitti, di guerre. In fondo la storia dell’umanità è fatta per la stragrande maggioranza di governi autoritari, di tirannie, dittature, e ancora oggi i regimi democratici sono una parte minoritaria dei governi mondiali.
La costituzione dell’Unione Europea voleva essere una soluzione definitiva, preventiva, di garanzia di democrazia e di pace per il continente europeo, che avrebbe dovuto a sua volta costituire un modello per i paesi che si affacciano sul Mediterraneo, non certo da esportare con la violenza e la guerra, come purtroppo è accaduto con conseguenze gravissime per la stabilità dell’area mediorientale e nordafricana, ma come punto di riferimento, di guida, modello avanzato di approccio alla democrazia partecipata, nel rispetto delle caratteristiche, delle tradizioni, della storia e della cultura di ciascuno dei paesi interessati.
Il progetto europeo prese corpo con indifferibile urgenza dopo la tragica conclusione della Seconda guerra mondiale e trovò il suo fondamento nel Manifesto di Ventotene, il cui titolo originale era Per un'Europa libera e unita. Progetto d'un manifesto, (documento per la promozione dell'unità europea scritto dagli oppositori del regime fascista Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorno tra il 1941 e il 1944 durante il periodo di confino presso l'isola di Ventotene), e la sua rilettura mostra la lungimiranza, la nobiltà e l’elevato livello politico e culturale del progetto. Un manifesto che dovrebbe ancora oggi costituire il programma dell’Unione Europea, per realizzare e completare quanto sin qui si è fatto, invece di rincorrere gelosie nazionalistiche, anacronistiche rivendicazioni territoriali, sciovinismi miopi, tutela di interessi particolari.
Purtroppo il percorso sembra oggi avere subito interruzioni ed ostacoli impensabili ancora sino a pochi anni fa. La crisi economica del 2008, la globalizzazione dell’economia e della finanza, la disarmonia creata dalla parziale adesione degli stati europei alla moneta unica, hanno fatto il resto. C’è poi, sempre sottovalutato, l’interesse di USA e Russia ad ostacolare, sabotare, rallentare il progetto di un’Europa unita, che con i suoi 500 milioni di abitanti, la sua storia, il suo patrimonio artistico e culturale, unico al mondo, la sua economia, le sue istituzioni democratiche, avrebbe rappresentato, più che un formidabile concorrente economico e industriale, la più elevata espressione di democrazia, tolleranza, rispetto dei diritti di libertà, di progresso civile, raggiunta dall’umanità.
Sembra invece prevalere un latente desiderio di rinuncia agli ideali di libertà e di progresso, in cambio di ordine e sicurezza, che confinano la libertà alla sola corsa consumistica dei nostri tempi. Le paure hanno finito con il prevalere e suscitano quella che Ėtienne del La Boètie, già nella metà del 1500, nel suo breve ma prezioso trattato definiva “servitù volontaria”, concetto ripreso nella Leggenda del Grande Inquisitore di Dostoevsky, nei Fratelli Karamazov.
Concludiamo con l’immagine che Stefan Zweig da dell’Unione Europea, una costruzione che egli paragona ad una odierna Torre di Babele. Nel suo libro omonimo, scritto nel 1916, all’epoca della prima guerra mondiale e ristampato nel 1930, quando intravede il pericolo di nuove sciagure per l’Europa, egli manifesta il suo pessimismo verso la possibilità della costruzione di un’Europa nuova, libera da guerre e nazionalismi: “La nuova Torre di Babele, il grande monumento all’unità spirituale dell’Europa, è andata in rovina, i costruttori si sono smarriti.” Conclude Stefano Feltri, nel suo recente Populismo sovrano, che “l’illusione della sovranità – il mito funesto di Luigi Einaudi – è lo strumento che un dio insicuro e vendicativo usa per distruggere quanto l’uomo ha costruito”.
Rimettersi all’opera per ricostruire tutti insieme la Torre, questo è il compito dei governi e di tutti i cittadini d’Europa per assicurare pace, sviluppo e democrazia al nostro amato continente.