“Ridete e sarete sani”. Così era intitolata una breve rubrica, quasi un appuntamento mensile, della vecchia rivista Selezione: ottimo suggerimento.
Il tema del benessere dato dalla risata è al centro di un famoso film americano del 1942, I dimenticati, scritto e diretto da Preston Sturges, interpretato da uno straordinario Joel Mc Crea, particolarmente in forma e da un’affascinante e appassionata Veronica Lake. Titolo originale: Sullivan’s Travels. È la storia di un regista di nome John Sullivan, molto impegnato nella denuncia del malessere diffuso quegli anni.
Convinto che in tempo di guerra il cinema debba rifuggire dallo svago e dal divertimento per interessarsi alla condizione dei poveri e dei diseredati, Sullivan decide, una notte, di girovagare tra i disperati senza tetto a distribuire biglietti da cinque dollari. Ma viene assalito e tramortito da un barbone che gli sottrae soldi e documenti e nel fuggire tra vagoni di uno scalo ferroviario finisce stritolato da un treno in corsa. Con i documenti che il rapinatore ha addosso, poco riconoscibile per l’investimento, il cadavere è identificato come quello del regista. Lui, invece, stordito dai colpi ricevuti durante l’aggressione, riprende i sensi, ma ha perso la memoria. Per il vivace diverbio con un poliziotto che lo sorprende privo di documenti, viene arrestato per vagabondaggio. Quando finalmente gli torna la memoria si trova tra disperati condannati ai lavori forzati.
Il povero regista vive così insieme ai detenuti la tragica esperienza di quel luogo. Un giorno, con gli altri, assiste, in un momento di ricreazione, alla proiezione di un divertentissimo cartone animato di Topolino e di Pluto, organizzato da una parrocchia. Tutti ridono di cuore, trascinando alla fine anche lui, che all’inizio sembrerebbe non avere alcuna voglia, e dimenticano per qualche minuto l’amarezza e l’angoscia di quella condizione drammatica.
Riuscirà, però, a venire fuori da quell’inferno; gli verrà l’idea di dichiararsi a gran voce assassino del regista John Sullivan, cioè di se stesso. L’espediente servirà a farsi riconoscere e a por fine a quella prigionia. Quando ormai è tornato al lavoro, agli amici che chiedono se la tragica esperienza vissuta gli servirà finalmente per girare il film di denuncia che ha da tempo in animo, risponde che ha mutato parere e che d’ora in avanti realizzerà solo film comici, riconoscendo nella risata il miglior antidoto contro la sofferenza. E mentre pronuncia queste parole rivede i disgraziati prigionieri che insieme a lui se la ridono di cuore guardando le peripezie di Topolino e di Pluto. Particolare singolare è che ne I dimenticati, si fa riferimento apertamente a due registi di grande successo di quegli anni, Ernst Lubitsch e a Frank Capra, ritenuti inadeguati ai tempi, perché troppo disimpegnati e leggeri.
Lubitsch e Capra sono rimasti indimenticabili maestri di humor, di ironia e soprattutto di levità e d’eleganza, probabilmente ineguagliati. Proprio nel 1942 Lubitsch realizza uno dei suoi maggiori capolavori, diventato un classico della storia della cinematografia: Vogliamo vivere!, irresistibile parodia del Nazismo e di Hitler. Frank Capra ci ha lasciato, tra gli anni Trenta e Quaranta, veri e propri gioielli come, per citarne due tra i tanti, È arrivata la felicità e Arsenico e vecchi merletti. Difficile trovare storici del cinema che non riconoscano questi film come veri prodotti artistici di altissimo livello.
Oggi i ruoli ufficiali dell’arte, soprattutto in Italia, sembrano bandire il riso e il sorriso, non riuscendo a divincolarsi dai binari dell’impegno serioso, della asperità dei linguaggi, della denuncia sociale, della sofferta indagine introspettiva. Sembrano relegati, invece, in una sorta di sottoclasse del gusto e dell’arte, lo svago disimpegnato, la distrazione e la risata, e appare confermata la insulsa distinzione, ancora assai praticata e difficile a morire, tra cultura alta e cultura bassa. Distinzione secondo la quale le raffinatissime Variazioni su un Valzer di Diabelli di Beethoven rappresentino l’alta cultura musicale e godibilissimi ragtime suonati da Keith Emerson, a loro confronto, espressione di cultura bassa.
Sarà forse per certa tradizione letteraria italiana un po’ musona che scrittori come Campanile e Guareschi siano assai poco frequentati e che la caricatura sia ancora considerata figlia un po’ illegittima della grande famiglia delle arti. Sono tantissimi, al contrario, gli autorevoli inviti a scoprire la necessità e la saggezza del riso. Shakespeare scrive nell’Otello: “Il derubato che ride, ruba qualcosa al ladro; e se stesso deruba colui che spende un dolore inutile”. Rabelais, nel Gargantua e Pantagruel lancia il suo monito: “Meglio è di risa che di pianti scrivere, ché rider soprattutto è cosa umana”. E Thomas Carlyle: “Nessuno che una volta abbia riso veramente di cuore può essere irrimediabilmente cattivo”.
La risata, insomma, ha sempre avuto un’inarrestabile forza salutare, in tutti i tempi e in tutte le culture, anche come arma per non prendersi troppo sul serio e per difendersi dall’arroganza di chi ci comanda. È, comunque, consigliabile tenere sempre presente, fino a impararla a memoria, la riflessione di un dissacratore incorreggibile come Leo Longanesi: “Chi non ride, in Italia, fa ridere”. Alla fine, ai condannati ai lavori forzati di Preston Sturges, non rimane altra consolazione che il riso spensierato di un momento, suscitato dalle avventure di un breve film di Topolino e Pluto. L’invito, dunque, è sempre lo stesso: ridete e sarete sani.