Claudio Sabatino espone al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, Salone della Meridiana e Sala del Toro farnese circa 80 opere che riassumono il lungo lavoro fotografico svolto tra gli scavi di Pompei e i dintorni della città antica. Ma qual è il significato profondo di questa esposizione che contrappone la quiete perenne delle testimonianze antiche con l’evolversi della città nuova? Lo racconta lo stesso autore. Claudio Sabatino, 50 anni, nato a Castellammare di Stabia, dopo una laurea in Architettura a Napoli, si dedica alla fotografia e in particolare alla rappresentazione del paesaggio urbano e gran parte dei suoi lavori sono stati presentati in mostre personali e collettive.
Quando è iniziato il progetto?
Il progetto della mostra Fotografare il tempo. Pompei e dintorni è iniziato tre anni fa circa da un’idea di Gioia Olivastri ed è il contenitore di un insieme di lavori che hanno come tema comune la ricerca sulle presenze archeologiche campane. Parlo di Pompei, lavoro che è iniziato nel 2000 e di La città intorno, titolo del lavoro nato dall’incarico ricevuto dal Centro Culturale San Fedele di Milano e datato 2005. Durante questi anni sono tornato diverse volte nelle aree archeologiche citate e ho continuato ad aggiungere immagini a quanto già fotografato. Di fatto il mio lavoro sull’archeologia include anche altre aree archeologiche italiane ma, per questa mostra al Mann, abbiamo deciso di esporre la sola parte campana.
Questa mostra rappresenta un documento storico-iconografico delle trasformazioni avvenute nel tempo nel complesso rapporto esistente tra architettura antica e moderna. Una documentazione fedele anche per evidenziare un contrasto, tra l’antichità e l’avanzare della città moderna. È un tuo modo per difendere la Bellezza?
Il mio obiettivo non è porre in evidenza le ambiguità e le problematiche del paesaggio contemporaneo rispetto ai beni culturali da tutelare. Il mio obiettivo è invece trovare una forma di lettura che metta in relazione il mondo antico con quello contemporaneo trovando una forma estetica che rappresenti questa convivenza senza giudicare. Spesso il rapporto tra antico e moderno è stridente, altrettanto spesso però questa convivenza è a mio avviso assolutamente armonica. Io credo che il paesaggio dato dalla sovrapposizione di architetture di epoche diverse è in qualche modo il trasposto attualizzato di quello che era il paesaggio dell’età classica. Nella Pozzuoli o nella Capua di duemila anni fa c’erano l’anfiteatro e altri edifici pubblici, ma al loro fianco edifici di minore importanza o architetture secondarie che si confrontavano con esso in una sorta di dialogo naturale. Attualmente noi viviamo questo rapporto tra le parti con disagio perché pensiamo che i beni ereditati dal passato debbano vivere racchiusi in un recinto che ne tuteli la sopravvivenza e che ne eviti qualsiasi relazione con il contesto considerato di minor valore perché contemporaneo. In verità, io penso che questo contesto sia la rappresentazione della nostra condizione umana, racconti molto della storia del nostro paese ed è quello che spero si evinca dalle mie fotografie. La modalità operativa che uso è filtrata dal metodo della fotografia documentaria, cerco di non prendere una posizione ideologica precostituita ma di raccontare le cose esattamente come stanno, in modo oggettivo, osservando con naturalezza e senza nessun artificio aggiunto alla qualità dei luoghi. Non so se questo possa aiutare a preservare la Bellezza, certamente cerca di svelarla, anche dove essa non si manifesta apertamente.
Contrasti e contraddizioni tra antichità e sviluppo delle città si ritrovano anche in Europa?
La questione non è solamente italiana ma principalmente mediterranea. Penso alla Grecia, alla Spagna, alla Francia. Certamente in Italia, vista la grandezza del patrimonio archeologico, il problema è più evidente. Credo che dovremmo parlare di contrasto e contraddizione solo dove lo sviluppo della città non ha previsto o non ha risolto l’integrazione del “monumento” all’interno del proprio tessuto urbano. L’attenzione verso la parte più antica dei nostri centri urbani, la cura dello “storico” è maturata relativamente da poco. Napoli ha una struttura urbanistica che è ancora basata sulla divisione di cardi e decumani, un impianto classico. In quella divisione si sono avvicendati gli Angioini, gli Aragonesi, i Borboni. Tutte queste dominazioni non hanno modificato quello schema, l’hanno vissuto per come esso era con le necessità che il governo della città richiedeva. E, dove lo sviluppo della città è avvenuto nel rispetto della storia, le contraddizioni sono risultate meno evidenti.
Paolo Giulierini, Direttore del MANN dice che la tutela consapevole è prima di tutto ferma opposizione alle speculazioni edilizie ma anche, ad esempio, freno alle centinaia di scavi archeologici che non prevedano un piano di corretta conservazione di ciò che si decide di lasciare en plein air. E, a proposito della mostra, mette in evidenza che l’allestimento e il catalogo, consentono di esaminare come in molti luoghi simbolo
(Terme di Caracalla, Pompei, Napoli, Area Flegrea) ci siano un “prima” e un “dopo” spesso antitetici”. Cosa ne pensi?
I lavori che compongono Fotografare il tempo, sono molto diversi tra loro. Uno guarda alla città archeologica chiusa all’interno di un recinto, l’altro esamina lo scambio dialettico tra il nuovo e l’antico.
Nell’allestimento, come nel catalogo, queste due parti si confrontano offrendo lo spunto per una riflessione sulla conservazione del patrimonio archeologico, sia quello conservato all’interno dei parchi archeologici sia quello che compone la città contemporanea. Fotografare Pompei per me è stato come fotografare un’enclave, un luogo dove esistono specifiche regole di utilizzo. Si è identificati come turisti all’ingresso e all’uscita, si paga un biglietto con cui si può solo osservare la città attraversandola. Altrove, le rovine sono parte integrante del tessuto urbano e stabiliscono relazioni con la città effettivamente vissuta. La mostra è strutturata su questa differenza che mette in luce sia la necessità di un’azione di tutela del patrimonio aggredito dall’espansione edilizia sia la maggiore attenzione maturata nella gestione dei luoghi espositivi.
La curatrice della mostra, Giovanna Calvenzi, osserva che il tuo modo di narrare risente della lezione americana del “linguaggio documentario”, suggerita già negli anni Trenta da Walker Evans che teorizzava il rispetto “oggettivo” del paesaggio.
Mi ci ritrovo perfettamente. Con Walker Evans si ha la teorizzazione della fotografia documentaria, un passaggio storico fondamentale, importantissimo, con cui poi grandissima parte della fotografia internazionale ha fatto i conti. Attraverso questa modalità, ho sviluppato tutti i miei lavori. Non sono un fotografo da foto singola e tantomeno un fotografo che tratteggia la realtà con espedienti che la mistificano. Cerco sempre di essere il più neutrale possibile stabilendo con i luoghi una sorta di distanza empatica che racconti lo spazio in maniera omogenea. È una distanza ideale che non intende essere “critica” ma che vuole proporre una riflessione. Vorrei che attraverso le mie fotografie fossero poste delle domande e non date delle risposte. Penso che il fotografo nel suo disporre la macchina fotografica per fare la fotografia in qualche modo prenda una posizione anche per raccontare ciò che vede. È una metafora del prendere una posizione civile e politica rispetto a quello che si sta fotografando. Questo posizionamento culturale è inevitabile ma il mio sforzo è di trovare una collocazione che faccia chiarezza e dimostri equidistanza.
Fotografare il tempo è un progetto in progress?
Non considero mai i miei lavori conclusi. Fotografare il tempo è una tappa importante ma non il punto di arrivo. Il mio auspicio è che queste fotografie possano cominciare a girare e che la mostra non resti solo un momento napoletano ma una risorsa condivisibile anche in ambito europeo.
Giovanna Calvenzi sottolinea, parlando della tua fotografia, la perfetta conoscenza dei luoghi, delle luci, dell’uso del colore che trasformano l’intenzione “documentaria e non interpretativa” in una narrazione personale, intensa e partecipe.
Ho vissuto gran parte della mia vita a Pompei, vicino agli scavi archeologici dove i miei genitori hanno un albergo. Dalla mia finestra di casa guardavo le rovine e abitavo in una strada che portava alla Villa dei Misteri. Gli scavi di Pompei sono un luogo che mi appartiene. Li ho vissuti come territorio di conquista, come un altrove vicino casa, come l’estensione del campo da gioco e mi hanno offerto quegli elementi costitutivi che fanno la storia di ognuno di noi. Credo che questo sia l’aspetto più significativo del mio lavoro su Pompei: fotografie che trattano di un luogo familiare. Uno spazio osservato attraverso la chiave dell’esperienza personale che rende la narrazione intensa e partecipe.