Era il 26 dicembre. Una giornata gelida, e umida. Umidità e gelo sono un’accoppiata che t’ammazza. L’aria ti si ghiaccia addosso. L’unica cosa che resta da fare è tremare per scrollarla.
Avevo passato il pomeriggio a girare per il centro. Stavo cercando un regalo per una persona nata il 30 dicembre. Che gran sfiga, nascere il 30 dicembre. Avevo girato cinque negozi di intimo, e due di scarpe. Non avevo trovato niente. Mi ero congelato i piedi, e il culo. Avevo le mani infilate nei guanti, e i guanti infilati nelle tasche dei pantaloni. Non potevo fumare. E quel vecchio rottame di macchina non mi avrebbe dato aria calda prima di una decina di chilometri. Pensavo solo alla mia doccia, al vapore, e alla condensa sullo specchio. Mi restavano altri tre giorni. E la speranza che il gelo diminuisse.
Ero finalmente nudo, dentro il letto. Una doccia bollente di quindici minuti. Pura estasi. Avevo fumato due sigarette di fila, e acceso la terza. Il gusto delle sigarette stava passando, così come la magia del momento. Ma chissenefrega. Avrei potuto rifarlo. Rifarlo anche trenta volte. Mi bastava questo pensiero. Dovevo ancora trovare un regalo. Ma non quella sera. Sul tavolo della cucina avevo un’ottima bottiglia di Balvenie. Possa implodere il mondo intero, sto una favola.
Il telefono ha squillato. Era Luca.
“C’è un bel concerto, al Calamita. Una cover band dei Led Zeppelin e Deep Purple”.
“Non lo so. Fa un freddo maledetto. Vieni da me, ho del Balvenie, ci sbronziamo”.
“Fidati, li ho già sentiti una volta. Spaccano”.
Luca è piccolo, e magro. Sembra un ramoscello di pino. Ma quando apre bocca, è meglio che tu tenga chiusa la tua. Se dice che dobbiamo andare, dobbiamo andare.
Faccio una tirata profonda, “a che ora passi”?
“Alle dieci sono da te”. Dice.
Guardo l’orologio. Le otto e mezza. Doccia bollente, sigarette, whisky invecchiato. Concerto. Ho tutto il tempo per godermi tutto quanto.
“Ottimo. A dopo”.
Il Calamita è un ex centro sociale resuscitato; uno stanzone venti metri per venti. C’è il bancone del bar da una parte, e dall’altra il palco. Quel che resta è la zona ballo\cazzeggio\vomito. La band sta suonando. Il cantante è piuttosto capace. Il chitarrista un po’ meno. Il batterista è sbronzo. Abbiamo puntato dritti al bancone del bar. Una morettina in minigonna ci è venuta incontro. Ha abbracciato Luca, l’ha limonato per bene, e se l’è portato via. Bastardo, me l’aveva fatta alla grande.
Sul concerto, però, aveva ragione. Ero a pochi passi dal bancone, c’era l’ultimo sgabello libero. Ho visto un tizio, non lontano da me, puntare lo sgabello. Ho accelerato il passo, dato qualche spintone. Siamo arrivati insieme. Ci siamo dati una spallata. Aveva vinto quello con le spalle più larghe: io. Ho ordinato una pinta di Guinness. Lo stanzone si stava riempiendo. Cominciava a fare caldo. Il barista correva, e sudava. Ho ordinato subito un’altra pinta, e un doppio Lagavulin. Così, giusto per essere a posto per un po’.
Davanti e intorno al bancone la gente si ammassava. Cominciavano a spingere, a sgomitare. Mi sono dato da fare: ho buttato giù le birre, il doppio whisky, e ho sigillato la bocca con una sigaretta. Come cazzo si fa a bere quando ti spuntano da tutte le parti mani e braccia altrui? Sotto al palco il concerto cominciava a farsi interessante. Il cantante saltava, la gente ballava. Il batterista picchiava forte, era bagnato fradicio e sputava per terra a ogni rullata. Ho raggiunto il palco sul ritornello di Highway Star. Ho acceso un’altra sigaretta e mi sono guardato intorno.
Vicino alla porta d’ingresso, sotto una colonna, le mani di Luca erano andate ben oltre la minigonna. La piccoletta aveva il culo quasi completamente di fuori. Si leccavano dappertutto, si mangiavano, nascosti nella penombra. Cazzo com’erano affamati. Buon per te, ramoscello di pino. Faceva un caldo insopportabile. Ho tolto il maglione e l’ho legato in vita. Una biondina di fianco a me ha fatto lo stesso. E la scollatura della sua canottiera color giallo limone mi si è incollata agli occhi come un velcro. Il principio di un gran bel davanzale, bianco e umido. Il whisky era entrato in circolo, con tutte le birre. Ho acceso un’altra sigaretta, senza distogliere lo sguardo. La biondina saltava, e io mi godevo tutto quel rimbalzare dalla sua canottiera.
Sull’assolo di chitarra ho fatto una bella tirata profonda. E ho sbuffato davanti a me, senza pensarci. Dritto sulla scollatura. La biondina si è girata a guardarmi. Ero pronto, stava arrivando. Una bella sventola a mano aperta, di quelle che lasciano l’impronta di tutte e cinque le dita. Palmo compreso. Nemmeno ti fossi addormentato sotto il sole dei Caraibi con una mano sulla faccia. E invece, no. Mi ha sorriso.
“Hai notato che il batterista è sbronzo”? Ho detto.
“È mio cugino. Sono qui per lui”. Ha risposto.
Ecco, ho pensato, eccola qua che arriva, la cinquina. Io non ci ho mai saputo fare con le donne. Inutile, non sono cose che si imparano. Uno ci nasce. È un talento. Ho guardato dall’altra parte, verso la colonna. Il ramoscello di pino si smanazzava la piccoletta. Lui ci sa fare, a modo suo. Le ubriaca con i suoi dannati giri di parole. A lui non serve una bottiglia. È lui la bottiglia. Che gran talento. “Hai una sigaretta anche per me”? ha detto la biondina. Le ho passato la sigaretta e gliel’ho accesa, fissando la scollatura. Dio solo sa come ho fatto a non accenderle il naso, o i capelli. Ha fatto una bella tirata. Poi mi ha sollevato lo sguardo mettendomi una mano sotto al mento, si è avvicinata quel tanto che basta a farti sentire in trappola, e ha soffiato fuori il fumo.
“In macchina ho una bottiglia di Jack”. Ha detto. Quando Luca dice che dobbiamo andare, dobbiamo andare. Ho pensato. “Sarà fresca al punto giusto. Mi chiamo Nathan”. Ho risposto. “Ahà”, ha fatto lei. E si è rimessa il maglione. Mi ha preso per mano e mi ha guidato fuori dalla bolgia. Siamo passati vicino alla colonna. Ho dato un colpetto al ginocchio di Luca. Si stava mangiando la sua piccolina, non si è accorto di nulla.
La biondina aveva una Ford familiare grigia. Un modello vecchissimo, cascava a pezzi. Aveva la fiancata sfondata, e il ruotino di scorta al posto della ruota posteriore. Mancava lo specchietto sul lato guida. E dentro mancava il sedile anteriore del passeggero, ma non era proprio una brutta cosa. Mi sono seduto dal lato senza sedile davanti. Sembrava di stare in limousine. Ha messo in moto ed è uscita dal parcheggio. Dentro la macchina faceva ancora più freddo che fuori. Il parabrezza si stava ghiacciando dall’interno.
“Tranquillo”, ha detto, “l’aria condizionata funziona”. Siamo usciti dal parcheggio. Ho aperto la bottiglia di Jack e ho preso un bel sorso. Poi un altro. Andava meglio. Ma chi cazzo è questa? Pensavo. È una pazza che non ha paura di niente. Oppure è troppo saggia per avere paura di qualsiasi cosa. Ha fermato la macchina all’inizio di una carraia buia, a circa cinque minuti di distanza. Ha spento le luci e lasciato il motore acceso.
“Dove siamo”? Ho chiesto. “Che ne so”, ha risposto. Ho dato un terzo sorso, bello pieno. “Mi chiamo Nathan”, ho detto. “Ahà”, ha risposto. Poi si è messa a cavalcioni sopra di me, mi ha strappato la bottiglia, ha dato un bel sorso, e me l’ha riversato in bocca spingendomi il Jack in gola con tutta la lingua. Bruciava da pazzi, e non potevo deglutire. “Manda giù”, ha detto. “Mi serve una sigaretta”, ho risposto. “Non adesso”, ha detto. Altro sorso di Jack, altro giro di lingua. Improvvisamente non faceva più tanto freddo. Le ho tolto il maglione, e i pantaloni. Le ho stretto il culo con tutte e due le mani. Aveva la pelle soffice, e la carne dura. E quel rimbalzare dalla canottiera, non era una menzogna.
Quando sono riuscito a fumare erano passate due ore. La bottiglia di Jack era circa un quarto dalla fine. Gran bella esperienza farlo in una macchina senza il sedile davanti. E senza mai smettere di prendere sorsate da una bottiglia. Ci siamo rivestiti. La biondina ha spento il motore. Ho aperto la portiera, e ho restituito alla carraia tutte le birre, il Lagavulin, e il Jack. Lei, no. L’ho sentita ridacchiare. E ci siamo addormentati.
Alle sette del mattino il cielo era grigio, e nevicava. Avevamo parcheggiato sotto un albero. Ho svegliato la biondina. “Dove abiti”? Ha detto. “Vicino”, ho risposto. Mi sarei aspettato un dopo sbronza peggiore. Niente mal di testa, solo sonno. Un sonno strepitoso. Avevo lasciato il cellulare nella giacca, e la giacca nella macchina di Luca. Chissà com’era andata la sua serata. Mi avrà sicuramente pregato qualche accidente. La biondina ha fermato la macchina davanti casa mia. “Ahà, senti, posso lasciarti il mio numero”?
“Coglione, mi chiamo Valentina”, e ha sorriso. “Magari stasera usciamo”.
“Magari. Anche se credo che continuerò a chiamarti Ahà. Almeno per un po’”.
La biondina ha sorriso, e mi ha sbattuto fuori dalla macchina. Fanculo il regalo, il freddo, il 30 dicembre. Io vado a dormire, e se ne riparla stasera. Ahà.