“La città tappezzata di poesia”, “La poesia sui muri della città”, “La quinta pagina sui muri” “Poesie murali in centro e nei quartieri” … così, a partire dall'aprile 1971, titolavano i giornali, da Vicenza a Palermo, da Cesena a l'Aquila, da Bergamo a Pesaro, riportando di quegli strani manifesti poetici che invadevano la città.
Questa singolare e avveniristica iniziativa di Eugenio Vitali, ravennate, coinvolse la stampa quotidiana, dal Giorno all'Osservatore Romano, dal Resto del Carlino all'Unità, per non parlare delle riviste specializzate come La Fiera Letteraria. L'intento di questo ultimo “poeta di strada” non era di polemica politica o di protesta sociale, come veicolavano i manifesti, o meglio i “dazebao”, soprattutto dopo il '68. Vitali voleva che la poesia non fosse solo un atto di compiacimento solipsistico o una raffinatezza solo per pochi eletti, ma un patrimonio alla portata di tutti. E allora, niente di più culturalmente rivoluzionario che scendere per le nostre grigie strade cittadine e trovare, accanto a un cartello stradale, a un semaforo, a un tabellone pubblicitario, un casto foglio bianco dove spiccavano parole e versi magari incomprensibili, ma che costringevano la casalinga con la borsa della spesa o lo studente con i libri sottobraccio a fermarsi, a leggere incuriositi, a riflettere. Così la gente era coinvolta nel misterioso mondo della poesia, resa accessibile come dono fruibile da tutti.
Questo artista autodidatta, che ha vissuto della sua attività di falegname e che non ha mai confuso l'ispirazione e la “missione” poetiche con l'esibizionismo massmediatico o con le mode editoriali, fu il primo a cogliere questa esigenza che era nell'aria e che ebbe poi numerosi proseliti. Infatti, poco più di due anni dopo la prima affissione, nell'estate 1973, le pareti della metropolitana di Londra fecero da supporto a un romanzo in dodici puntate di David Coxhead, e Tonino Guerra, nel 1983, affisse manifesti “lirici” nella sua Santarcangelo. Poco dopo, una metropoli come Milano ospitò sui muri affissioni di versi di autori d'avanguardia come Cucchi, Giudici, Lamarque, Porta e Raboni grazie anche al contributo dell'Assessorato alla Cultura del Comune. Vitali, invece, dovette fare tutto da solo e tutto di sua tasca: spese di stampa e di affissione, contatti con le amministrazioni comunali, qualche volta anche scontrandosi con ostilità e diffidenza.
Il “Libro d' affissione” è stato, dunque, soprattutto un atto d'amore, perché, come ha detto Eugenio: “La vita è una battaglia e l'artista deve combatterla col pensiero rivolto al prossimo, non ritenevo e non ritengo che la poesia sia un patrimonio solo di pochi, emarginata nelle aule scolastiche: che cosa c'era di meglio, allora, che tappezzare i muri delle città con versi?”
Amore per la poesia che Vitali ha materiato in tutta la sua produzione, che ha saputo esprimersi con raccolte che gli hanno regalato prestigiosi riconoscimenti da parte di critici come Giorgio Barberi Squarotti e Maria Luisa Spaziani e che gli ha permesso di risultare finalista al Premio Viareggio; in dialetto, poi, si è distinto con quel piccolo capolavoro che è “La cânta de mêr e de vént” e ora ha avuto pure la soddisfazione di importanti traduzioni internazionali.
Come ha scritto Maria Luisa Spaziani, “Una tra le ragioni di fascino della poesia di Vitali è la sua ambiguità o decisamente il suo mistero, piccole sfide subliminali al lettore, che forse da parte dell’autore celano un’astuzia: quella di invogliarlo a rileggere per meglio impregnarsi di un’aura non spiegabile a parole ma tanto più pervasiva e suggestiva”. “Sono stato il mago del silenzio,/ penna irreversibile./ Tu ostinata e abile,/ io giovane forbice./ Mi dicesti fammi da staffetta./ Io ti risposi imbiancando foglie/ d’inchiostro. // Mia penna,/ nulla più da chiederti,/ resti in sorte/ all’ago cucito sulla fronte”.
Scandagliando nel profondo della sua poetica, Nevio Spadoni ha notato che: “Vitali è autore lontano da sentimentalismi e dalla vuota retorica. È ben radicato nel presente, consapevole che la pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo e come la citazione biblica ha un preciso riferimento al Cristo deriso, maltrattato, emarginato, qui può essere applicata al poeta, voce spesso inascoltata, ma la cui parola è lama, fendente che penetra nella carne viva, fuoco che divora. Ancora una volta spetta al poeta, come del resto nell’antica Grecia o nel mondo ebraico dei profeti, il coraggio di rifare la mappa dell’universo e ridisegnare il solco dei valori”. “Il progresso ci sta giocando/ al pari e dispari,/ noi, conquistatori del cosmo,/ nell’ora più tarda della terra./ Senza accorgercene siamo usciti dal nostro corpo/ per mieterci con lamiere/ di auto e/ fragore di parole./ Di noi è rimasto appena/ un bullone di uomo”.
Ma Vitali, oltre a questa ardita vena lirica, è anche uomo di profonda riflessione sul suo tempo e la società, con svettanti aforismi carichi di succhi corrosivi: “Oggi è la pace che imita la guerra”; “Ora che le grandi ideologie sono cadute, emerge in modo incontrollabile il virus delle religioni”; “Si viaggia via internet e portiamo ancora il collare della bestia”, così come sa esprimersi con una sotterranea vena autoironica: “Ho fatto uso del mio corpo come di una pala da lavoro, così la mia mente è stata un’isola a parte, e, quando riuscivamo a fonderci, eravamo degli sconosciuti uno dentro l’altro”; “Ho vissuto sempre da perdente: ecco perché trovo spazio dentro di me”; “A volta l’ingordigia di scrivere è solo l’incapacità di crescere nel tacere”.