C'è chi fa il giornalista perché ama scrivere. Chi per raccontare storie, chi ancora perché l'adrenalina della notizia fa girare la giornata e, infine, chi questo nobile mestiere lo abbraccia come testimonianza civile e di verità. È il caso di Paolo Borrometi, giornalista siciliano dalla schiena dritta e dalla penna che non fa sconti a nessuno. Tantomeno alla mafia.
Borrometi, classe 1983, è originario di Modica in provincia di Ragusa, località nota per lo splendido barocco e per la bontà del suo cioccolato apprezzato in tutto il mondo, non nasce come giornalista esperto di mafia, bensì come articolista di Terza pagina, la pagina culturale dove ama raccontare aneddoti e curiosità sulla sua Modica, straordinario e ricchissimo presepe barocco di pietra lavica che conosce come le sue tasche. È un caso che lo porta a incontrare la cronaca di mafia, quel giornalismo di trincea che diventerà la sua missione e che lo porterà ad essere quello che è oggi: un cronista che, per le sue coraggiose inchieste sulla mafia e la criminalità organizzata, è costretto a vivere sotto scorta.
Da collaboratore dell'Agenzia Italia di Roma segue oggi le vicende della sua terra e attraverso una testata online, da lui fondata la spia.it, che racconta la cronaca di una Sicilia vittima della “piovra”. “È stato un incontro fondamentale nella mia vita – ricorda - a far sì che lasciassi i temi culturali per dedicarmi anima e corpo al giornalismo d'inchiesta sulla mafia. Ero collaboratore del Giornale di Sicilia e mi trovai ad andare a una conferenza stampa per sostituire una collega. In quell'occasione c'era Ornella Inglese, la donna a cui era stato ucciso nel 2012 il figlio Ivano, un giovane postino. Omicidio che dopo un anno era ancora senza colpevoli. Quella madre mi chiese di aiutarla a trovare giustizia per suo figlio. Da quel momento in poi, le parole di Ornella Inglese mi rimbombarono nella testa, la sua disperazione di madre mi spinse a indagare, a sapere cosa fosse successo a Ivano. Posso dire di non essere io ad avere cercato la mafia ma la mafia ha cercato me”.
Borrometi da solo, con le su forze di collaboratore e precario, va a cercare la verità. E in questa sua spasmodica ricerca si accorge di un mondo, quello del giornalismo che, se da un lato predica bene dall'altro razzola male. “Vidi colleghi scegliere di non occuparsi del caso Inglese, guardare altrove. Lascio, quindi, Il Giornale di Sicilia e inizio a collaborare con La Sicilia ma anche lì vengo presto deluso e mi scontro con la redazione che non mi permette di scrivere quello che man mano vengo a sapere. Decido allora di fondare un mio sito di informazioni insieme a un gruppo di colleghi, appunto la spia. Spia perché è l'insulto che mi vedo rivolgere più frequentemente “sbirro, spione”, da qui il nome della testata”.
A seguito della sue inchieste nell'aprile del 2014, Paolo Borrometi viene aggredito proprio mentre sta rientrando a casa, viene percosso violentemente e ne esce con una disabilità alla spalla. Come se non bastasse nell'agosto dello stesso anno gli bruciano la porta di casa con un chiaro attentato intimidatorio. “Fortunatamente la porta era ignifuga – spiega il giornalista - altrimenti avrebbe potuto essere un martirio”.
Minacciato di morte, aggredito, per Paolo Borrometi c'era solo una soluzione quella di vivere 24 ore su 24 con una scorta di cinque agenti che vegliano su di lui. Una soluzione che lo priva di quella libertà che aveva sempre conosciuto ma che, certamente, lo mette al riparo da minacce che diventano ogni giorno sempre più violente.
Ma Borrometi è testardo, determinato, armato di una gentilezza e di una cortesia che diventano uno scudo inscalfibile di fronte all'ingiustizia e alla violenza del crimine organizzato. “Quello che faccio ogni giorno, la verità che cerco di portare nel mio mestiere, nasce dalla convinzione che sia possibile cambiare le cose dicendole, affermandole, non nascondendole. Sono convinto di far il mio dovere col piacere di farlo”. Certo, non è facile vivere guardati a vista, chiusi in spazi delimitati, in una segregazione che diventa vivere quotidiano. “Non posso drammatizzare la situazione in cui mi trovo – ammette - anche se ci sono momenti in cui mi fermo e mi scendono le lacrime. Sono quattro estati che non faccio un bagno al mare, ma questo non importa. Quello che importa è che la denuncia è l'unico modo per cambiare le cose”. Borrometi gira l'Italia portando la sua testimonianza ovunque, nella sua Sicilia, ai giovani, ai colleghi giornalisti, in ogni ambito, senza mai stancarsi. Animato dalla fede nella verità. “In ogni momento cerco di trasmettere l'amore per quello che faccio, ed è un amore caldo. È un amore anche verso le persone che mi vogliono ammazzare. Se ci fossero, oltre a me, dieci persone che denunciano le cose che denuncio io, diventerebbe difficile ammazzare ciascuno di loro, ciascun testimone”.
Oggi Paolo Borrometi è diventato una sorta di simbolo: minacciare Borrometi significa minacciare lo Stato e da un certo punto di vista per il giornalista modicano significa “che forse abbiamo sbagliato qualcosa”. Il 2018 per Paolo Borrometi sarà un anno importante. Come sempre di grande impegno civile e giornalistico, dovrà testimoniare a un processo e misurarsi con quel mondo oscuro da cui riceve continue minacce e messaggi intimidatori. Ma in un futuro desiderato Borrometi si vede camminare sulla spiaggia di Marina di Modica. “Passeggio mano nella mano con la mia compagna se Dio vorrà mettermela accanto, e i bambini ci corrono intorno. Vorrei invitare a cena con noi quei ragazzi che oggi sono la mia scorta, ma non per sorvegliarci semplicemente per stare insieme”. Sembrano piccole cose, ma sono immense per chi non le può fare. In nome della verità, della giustizia e dell'amore per il prossimo.