In principio fu la violetta. Minuscola e profumata, dall’aria fragile senza la rinuncia al temperamento. Non un fiorellino qualsiasi, quello che ha dato il nome al viola, il colore delle fodere di mantelli regali, il colore dei giorni di penitenza e lutto, della magia, il colore che spaventa i teatranti, il colore degli accostamenti audaci di Yves Saint-Laurent. Ultra violet, la tinta dell’anno 2018 di Pantone, l’azienda statunitense che codifica i colori impiegati nella grafica, nell’editoria, in tipografia. Ultraviola. Il colore del quale si veste Firenze, non per i tramonti pittoreschi, sì, pittoreschi, che stordiscono chi attraversa il ponte a Santa Trinita e guarda a ovest, a volte sono rosa e viola, ma per le magliette della Fiorentina, squadra, si dice, fra le più vicine alla propria città del mondo intero. Se poi pensiamo che i tifosi organizzati, non le biasimate frange violente, si chiamano ultras o ultrà, non c’è dubbio: Pantone è fan della Fiorentina, la Viola, per i suoi adoratori. L’UltraViola.
La Fiorentina è una squadra dalla personalità unica, che vinca, perda, pareggi e il giornalista Roberto Davide Papini l’ha saputa porgere anche ai profani del calcio nel documentario Campioni per sempre-Fiorentina ‘55/’56 premiato a fine 2017 con la Ghirlanda d'Onore allo “Sport Movies & TV 2017 – 35th Milano International FICTS Fest” finale di sedici festival del “World FICTS Challenge”, campionato mondiale della televisione, del cinema, della cultura e della comunicazione sportiva. Perché anche i non frequentatori degli stadi, perfino quelli che considerano gagliardetti, radioline e volti incollati allo schermo materia aliena, magari assurda, sono stati colpiti dalle imprese della squadra che vinse lo scudetto nel 1956, una storia trionfale che sa di sapone Marsiglia.
“Posso raccontare quello che mi è stato raccontato - spiega Papini, uomo colto, valdese e Radicale, quindi sostenitore delle libertà -. Come tantissimi tifosi di oggi ho sentito parlare da mio padre e da mio nonno della Fiorentina leggendaria, di questo primo scudetto, conquistato senza perdere nessuna partita tranne l’ultima che fu una sconfitta molto, molto discussa. Una squadra che vinse il campionato con cinque giornate di anticipo e fu la prima italiana a giocare una finale di Coppa dei Campioni contro il Real Madrid, una squadra che arrivò quattro volte seconda, perciò fortissima, con dei personaggi che hanno fatto veramente la storia del calcio, uno per tutti Julinho, forse il più grande giocatore che abbia mai giocato a Firenze”.
La narrazione dei genitori e dei nonni assume un tono un po’ epico.
Sì, è bello sentirlo, però è bello anche andare a vedere se era davvero così e allora nel 2016 ho colto l’occasione dei sessant’anni dal primo scudetto per fare un omaggio a quella squadra e capire un po’ di più. Parlando con i protagonisti, con quelli che sono ancora vivi, purtroppo qualcuno è scomparso tra la fattura del documentario e oggi, sono venute fuori le due chiavi del successo: una è la qualità dei giocatori e dell’allenatore, una qualità molto alta. Era una Fiorentina programmata per vincere, mentre la Fiorentina del secondo scudetto non aveva lo stesso obiettivo. La seconda chiave è l’amicizia fra i giocatori che ha fatto sì che tutti, tranne Julinho, siano rimasti a Firenze, anche i non fiorentini, e che questo gruppo di amici abbia continuato e continui ancora oggi in numero ahimé ridotto a rimanere in contatto, come non accade in tutte le squadre di calcio.
Poteva succedere solo a Firenze?
Questo è difficile da dire. C’erano l’amicizia, la qualità della vita, la città innamorata di calcio ma che faceva anche vivere tranquillamente i giocatori: negli anni Cinquanta anche altrove la pressione era sicuramente inferiore di adesso. Nella scelta di tutti di rimanere a Firenze, c’è molta Firenze, con il fatto che a Firenze si viveva e, nonostante tutto, si vive ancora bene, in una condizione di privilegiati rispetto a tanti altri luoghi.
La pulizia che si avverte nel documentario era vera? Voglio dire, nei limiti delle cose umane…
Ho avuto la fortuna di passare delle ore con queste persone e direi di sì. Direi anche che siamo un po’ condizionati dal tempo che è passato nel senso che il calcio di sessant’anni fa ci sembra più pulito, più a misura d’uomo. In parte è vero, in parte non bisogna essere laudator temporibus acti se puero: i tempi sono cambiati ed è giusto che cambino. È giusto che il calcio, come la musica, lo spettacolo, la moda, come il giornalismo, si adegui ai tempi nuovi. Tu hai detto pulizia… io parlerei di un calcio diverso che oggi non si potrebbe fare e non vorrei che fosse come quello perché non avrebbe senso, ma mi piacerebbe che prendesse alcune cose di allora che non sono così impossibili.
Il racconto dell’attaccante Virgili: mangiare insieme allo stadio, giocare ping-pong, a carte fino a mezz’ora prima dell’incontro quando il massaggiatore chiama: “Ohi, cambiatevi perché si gioca” descrive una situazione oggi impensabile. Impensabile in Italia perché in Inghilterra non è così strano che a pranzo un giocatore mangi a casa sua e che la mattina dell’incontro i calciatori si ritrovino. E anche da noi alcuni allenatori stanno abolendo il ritiro in caso di partite casalinghe.
Non dico di prendersi meno sul serio perché il calcio è lavoro, industria, soldi però di riportarlo all’idea di sport, di gioco e non solo di business che oggi condiziona gli orari e i giorni delle partite. Ecco, sarebbe stato inconcepibile vedere il Napoli con la maglia grigia e la Juventus con la maglia gialla, al posto di quelle celeste e bianconera, solo per vendere le magliette diverse degli sponsor. Recuperare l’umanità di quel calcio mi piacerebbe, naturalmente adattato al nostro calcio che è molto più tecnologico, più avanzato dal punto di vista della preparazione fisica, è molto più veloce tanto che se guardiamo i filmati delle partite di sessant’anni fa ci sembra di vedere una moviola.
Narciso Parigi e altre glorie. Li conoscevi già, personalmente?
È stata una bella scoperta. Quando Narciso Parigi, che ha girato il mondo, che ha venduto non so quanti milioni di dischi, che ha fatto i film a Hollywood, è stato celebrato, ha avuto una vita pienissima, mi dice: “Il mio sogno sarebbe tornare in Curva Fiesole prima di morire” dà la dimensione della pulizia, della genuinità di quelle persone. Narciso Parigi non canta l’inno della Fiorentina così. Canta l’Inno perché è un fiorentino, anzi un campigiano, che vive di sentimenti, al di là dei guadagni, dei successi, della sua casa meravigliosa. Ecco, queste persone rappresentano i sentimenti che ci sono ancora e resistono allo sfregio di certi aspetti del calcio di oggi.
Due scudetti vinti tanti anni fa, il primo quasi più vagheggiato del secondo…
Tutti sogniamo un nuovo scudetto. Nel documentario c’è un coro della Curva Fiesole: torneremo quelli del ’56. Il problema è che adesso, ed è brutto, il sistema si basa, più in Italia che all’estero, sui diritti televisivi che non sono distribuiti in maniera equa e favoriscono le squadre ricche che diventano ancora più ricche ed è difficile che squadre blasonatissime, ma meno ricche, come la Fiorentina, il Bologna, negli anni Venti e Trenta “lo squadrone che tremare il mondo fa”, o il Genoa possano vincere lo scudetto. Quindi quello che è successo in Inghilterra, con la favola del Leicester che vince il campionato, in Italia non dico che sia impossibile, ma quasi.
Fulvio Bernardini, l’allenatore di quella Fiorentina del ‘56, grandissimo allenatore, grandissimo intellettuale, detto “il dottore”, romano di Testaccio che ha giocato nella Roma, ha vinto lo scudetto a Firenze e a Bologna, credo sia l’unico allenatore, vado a memoria, che ha vinto due scudetti in due piazze che non siano Milano, Torino e Roma, piazze che hanno un bacino di tifosi immenso quindi appeal per gli sponsor, una proprietà di un certo tipo alle spalle, per esempio nel caso della Juventus, e mezzi economici che le altre non hanno. Quindi per una Fiorentina, un Genoa, vincere oggi varrebbe molto di più.
Fra Fiorentina e Juventus la rivalità è storica.
La Juventus rappresenta una squadra di potere ed è una squadra che ha vinto tanto, a questo si aggiungono degli episodi… come quello del famoso scudetto mancato dell’81/’ 82 e anche altre storie. Qui faccio il giornalista e dico che sono episodi discussi.
Vai allo stadio, al Franchi?
Fin da ragazzino. Sono stato abbonato alle Curve Fiesole, Maratona, Ferrovia, ora da qualche anno vado in tribuna stampa e lì mi devo controllare, devo mantenere un certo aplomb; non mi vergogno a dire che, pur essendo giornalista, sono tifoso della Fiorentina, da bambino mi veniva la febbre. Io non credo mai quando i colleghi dicono: non sono tifoso. Come se un giornalista politico non votasse per un partito. Poi bisogna saper distinguere la vita professionale, essere il più possibile obiettivi e sereni, ma lavorando per La Nazione sono avvantaggiato: è normale che il giornale abbia un occhio di riguardo per la Fiorentina. Non concepisco, poi ognuno è libero di fare quello che gli pare, chi ama il calcio come uno spettacolo, senza tifare.
Il viola?
Vuol dire Fiorentina, Firenze, vuol dire il mio babbo, le prime volte che andavo allo stadio. Lo studio a casa della mia compagna è dipinto di violetto, una mia richiesta alla quale lei ha accondisceso volentieri. Speriamo che l’ultra violet di Pantone porti bene! Mi piace quando il tifo è legato ai sentimenti, di qualunque colore sia la squadra. Che tu l’abbia scelta per la tua città, la tua famiglia, per la tua fidanzata, per la simpatia di un giocatore. Questo per me è il tifo “sano”. Come diceva Paulo Sousa (ex tecnico dei viola n.d.r.) che a me piaceva molto, e mi piace anche Pioli: “Noi dobbiamo portare in campo i valori della città. Noi rappresentiamo la città”. Il meccanismo: “Tifo questo perché vince” non lo condanno, ma a me piace meno.
Hai definito Bernardini un intellettuale. Una rarità o ci sono molti intellettuali nel calcio?
Ce ne sono. Sai qual è la cosa bella del calcio, in Italia? Dico in Italia perché in Italia il calcio è una specie di religione, la cosa bella è che trasversale. Ti puoi trovare a parlare di calcio in qualsiasi ambiente, a qualsiasi livello sociale con la stessa passione, con la stessa competenza. È vero che il calciatore magari fa una vita per cui è difficile portare avanti un’istruzione. I calciatori bravi, da piccolini, vengono portati via alle famiglie per avviare una carriera, però il calcio non è un mondo brutale: ci sono persone che hanno una cultura e una sensibilità. La difficoltà è che spesso da giovanissimi si guadagnano un sacco di soldi e allora lì ci vuole alle spalle una famiglia che ha dato equilibrio. Voglio fare un esempio positivo. Federico Chiesa, figlio d’arte, il padre è Enrico Chiesa. Federico Chiesa è uno giocatori dei più richiesti e pagati, ma dà la sensazione di essere quadrato, di essere in grado di sopportare questa pressione e di sapere qual è il suo posto, di non perdere la testa. Cito Chiesa perché ho avuto modo di parlarci, ma ce ne sono tanti altri. Il calciatore intelligente cerca di sottrarsi alla pressione e rimanere legato alla vita reale e oggi è più difficile perché il calciatore vive in un mondo a parte, meno fra la gente, rispetto ai calciatori del primo scudetto della Fiorentina. Non è facile. Molti sono stranieri e si ritrovano catapultati in un altro paese, con un’altra alimentazione, soldi folli, una vita un po’ così.
I guadagni iperbolici sono inevitabili?
Ora, sì. Dovremmo cambiare il calcio: come è diventato è una bolla enorme che prima o poi esplode. Ci sono giocatori che valgono duecento milioni di euro. È chiaro che se io sono una persona che fa mille e un altro fa cento, mi devi pagare dieci volte di più, ma il problema non sono i guadagni dei calciatori, il problema è un mondo sovradimensionato che poi porta a che cosa? Alle squadre che falliscono, a quelle, soprattutto piccole e medie, che non riescono a pagare gli stipendi. Perché il calcio non è solo Cristiano Ronaldo e Messi. Il calcio è anche le squadre di serie B o C o D che scompaiono. Non moraleggio, ma è questione di voler bene al calcio. Faccio un esempio: oggi si giocano tante partite, ci sono venti squadre e non voglio essere un nostalgico però a me piaceva di più quando ce n’erano sedici: con venti squadre quasi sempre a metà campionato hai già un’idea di chi retrocede. Il lato positivo è che città mai state in serie A possono vivere l’emozione di giocare con la Juve, col Milan. Però siamo in grado di reggere questa pletora? Secondo me no, ma si fa per gli incassi, non degli stadi che ormai sono una voce marginale.
E la proprietà così distante dal tifo? Il Milan ai cinesi?
Anche l’Inter ora, la Roma agli americani. Noi a Firenze ci lamentiamo perché i Della Valle stanno nelle Marche. Figuriamoci. Non ne faccio una questione di nazionalità: se la squadra di calcio è gestita come un’azienda qualsiasi perde la sua anima, non entra in sintonia con i tifosi che invece la vivono come un amore, ma se la squadra è amministrata dando importanza al valore immateriale che ha in termini di sentimenti, di tradizione, di storia, di tutto quello che ci fa palpitare ogni domenica… se viene un cinese che per qualche motivo è innamorato della squadra, o un tedesco o chi ti pare, va benissimo, se viene chi lo fa solo per il business, magari va anche bene, ma a me piace meno.