Uno dei tanti motivi per cui, in Italia, si registra un crescente distacco tra cittadini e istituzioni, è che nell’ambito di queste ultime - e in specie nella loro parte politica - ogni dibattito, ogni confronto, attiene sempre e soltanto alla sfera ‘politica’ (intesa come lotta tra schieramenti diversi), caratterizzandosi inevitabilmente per la scarsa aderenza alla sostanza dei temi in questione.
I grandi temi di fondo, quando (raramente) fanno capolino, vengono velocemente ridotti al rango di ‘querelle politica’. Con il risultato che diventiamo sempre più un paese ‘arretrato’, in cui si privilegia sempre la rendita di posizione all’innovazione. Non fa in questo eccezione la questione del ruolo che i musei dovrebbero rivestire nel mondo contemporaneo - cosa tanto più grave in un paese che vanta comunque una considerevole ricchezza in questo campo.
Come spesso accade, il dibattito internazionale che ha investito questo tema ha visto sostanzialmente assente l’Italia. Che, tanto per non smentirsi, ha giusto ‘orecchiato’ qualcosa qua e là, traendone conclusioni abborracciate, frammentarie e in ultima analisi incoerenti, senza comunque alcun processo ‘elaborativo’, che partisse - com’è giusto - dal mondo più strettamente coinvolto (musei e sovrintendenze), per coinvolgere poi quello dell’educazione (scuole e università) e dell’informazione.
Com’è noto, la recente riforma Franceschini (nata sull’onda del pensiero ‘neo-liberista’ dell’ex-presidente del consiglio, decisamente avverso al ruolo delle Sovrintendenze) si è caratterizzata per un approccio ‘quantitativo’ (quanti visitatori, quanti biglietti, quanti incassi...) totalmente svincolato dall’aspetto qualitativo. In particolare, la decisione di creare una fascia ‘privilegiata’ di musei, selezionati in base alla propria capacità attrattiva, e ‘premiati’ con una notevole autonomia, ha finito col determinare anche il suo opposto, ovvero ‘retrocedere’ la gran parte dei musei italiani in una ‘serie b’.
Ma la questione principale rimane il ruolo del museo. Se questo si riduce a convogliare quanto più pubblico nelle proprie sale (e/o se si ritiene che questo produca ‘de facto’ anche una crescita qualitativa), appare evidente che quel ‘gap’ di cui si diceva all’inizio, quel deficit di dibattito pubblico, produce risultati fuorvianti. Non aver definito questo obiettivo, infatti, sottrae il riferimento per qualsivoglia valutazione ex-post, e lascia campo libero per vendere come successo ‘qualsiasi’ risultato. Nella fattispecie, l’incremento quantitativo. Ugualmente - e del resto in perfetta coerenza con un quadro più generale del paese - è del tutto assente qualsivoglia politica di modernizzazione tecnologica all’interno della rete museale italiana, fatte salve poche iniziative ‘spontanee’, nella maggior parte dei casi comunque già ‘vecchie’ - nelle tecnologie adottate, e ancor più nell’approccio concettuale con cui vengono utilizzate.
Fatte salve rarissime eccezioni (ad esempio l’app Pompeii A/R sviluppata per il MANN, Museo Archeologico Nazionale di Napoli), i musei italiani si distinguono per un livello tecnologico più o meno coevo delle opere esposte. Laddove invece sarebbe opportuno e necessario mettere in campo una politica nazionale di ammodernamento, con i relativi investimenti; cosa che, però, per essere realmente efficace, e per non risolversi nell’ennesima occasione per favorire soltanto le ditte incaricate delle forniture, richiederebbe a monte una definizione degli obiettivi, e conseguentemente una coerente definizione delle tecnologie da utilizzare. Conoscendo lo scopo ultimo del museo, si può agevolmente comprendere quali sono i contenuti da veicolare, quali i ‘target’ privilegiati, e quindi identificare le tecnologie (e le modalità d’uso) più adatte allo scopo.
È ormai evidente che ‘raccogliere e conservare’ non è più sufficiente ad assolvere la ‘mission’ museale. Ma, al tempo stesso, la mera ‘apertura’ dei musei, finalizzata a dilatare la funzione del ‘mostrare’, è a sua volta insufficiente; tanto più se priva di un obiettivo preciso. Se si è consapevoli che il museo non è mero contenitore di ‘beni’, ma - forse soprattutto - custode di conoscenza, trasmettere quest’ultima diventa l’impegno prioritario. Ma, come è ovvio, assolvere il ruolo di ‘erogatore di conoscenza’ richiede dei modi e dei tempi diversi, rispetto a quelli del ‘consumo culturale’. E, non da ultimo, una ‘riprogettazione’ strutturale - delle sale, delle collezioni, del personale. E in questo, l’innovazione tecnologica potrebbe rivelarsi elemento decisivo.
Trasmettere conoscenza, relativamente alla storia dell’arte, non può comunque essere ridotto a uno ‘storicismo informativo’; più che passare nozioni, occorre determinare comprensione. Un primo criterio generale, dunque, dovrebbe essere quello di assumere un approccio multidisciplinare. Tra un modello informativo ‘asettico’ (l’autore, la tecnica, lo stile, il periodo, ecc.), e uno ‘narrativo’ (la vita dell’artista, magari in relazione alla sua produzione), modello quest’ultimo assai in voga in tempi recenti - si pensi a come vengono ‘comunicati’ Caravaggio o Van Gogh... - bisognerebbe piuttosto virare verso un modello conoscitivo, che collochi l’artista e l’opera nel suo contesto spazio-temporale, ne chiarisca il ruolo di testimonianza dell’epoca, e nel contesto identifichi gli elementi che ne hanno determinato la scelte artistiche. Restituire, insomma, una conoscenza complessiva della produzione artistica, e dell’artista stesso, che aiuti a conoscere e comprendere non solo l’opera, ma la storia culturale in cui si colloca.
Sotto il profilo strettamente pratico, e avendo a mente questo genere di finalità ultima, potrebbe rivelarsi assai utile l’utilizzo di alcune specifiche tecnologie. Un uso intelligente di ‘augmented reality’ potrebbe fornire uno strumento potentissimo per espandere il flusso conoscitivo in situ, cioè in presenza dell’opera stessa. La digitalizzazione dell’intero patrimonio museale e archeologico nazionale, resa fruibile su apposita rete intranet, permetterebbe una connessione ‘attiva’ tra realtà museali diverse - e magari anche lontane - e al tempo stesso una espansione considerevole del punto di vista. Avere a disposizione, in ciascuna sala museale, un dispositivo che consenta di visualizzare (attraverso un percorso e un ‘filtro’ ragionato) ogni elemento connesso (per autore, per stile, per soggetto, ecc. ecc.) ovunque collocato, sarebbe un fenomenale moltiplicatore per la capacità comunicativa del museo - e al tempo stesso, proietterebbe il visitatore verso altri musei, innescando un processo di incuriosimento ‘a catena’.
L’utilizzo di droni, infine, potrebbe rivelarsi estremamente utile, sia per allargare l’esperienza dei visitatori di alcune aree archeologiche (si pensi a Pompei), la cui estensione è tale da rendere impossibile visitarle completamente, preservandole a un tempo dall’impatto del turismo massivo, sia per connettere in tempo reale queste ai musei di riferimento, offrendo magari la possibilità di osservare il luogo di scavo in cui è stata rinvenuto il reperto che si sta osservando.
La questione principe, in ogni caso, rimane quella di fondo, sulla funzione museale. Ed è su questa che - quanto meno dalla parte più sensibile del suo mondo - che dovrebbe partire un dibattito pubblico. Il più possibile scevro da pregiudizi e preconcetti, e soprattutto dai condizionamenti derivanti da schieramenti politici. Il museo del nuovo millennio potrebbe essere disegnato attraverso un processo che parte da questo dibattito. E l’Italia sarebbe la sede naturale in cui farlo nascere.