Giovani, coraggiosi, un po' arroganti e rivoluzionari. Non avevano una vera e propria divisa - anche se l'eskimo diventò il loro simbolo di riconoscimento - però si identificavano in slogan come 'Vietato vietare' e 'Vogliamo tutto e subito'. Se la loro protesta non fosse dilagata nelle aule universitarie di mezzo mondo e non avesse avuto legami con operai e fabbriche, oltre a conseguenze tragiche, avremmo potuto dire che erano semplicemente studenti ribelli. Invece erano i 'Sessantottini', un'intera generazione di ragazzi che ha dedicato la gioventù alla protesta, nonostante traesse benefici dai vantaggi del boom economico, benefici - come l'educazione e il benessere - fino ad allora privilegi di una élite ben più ristretta. Eppure contestavano. Non solo la scuola e l'università, ma la società nel suo complesso, quella società autoritaria e spesso corrotta che volevano ribaltare. Ci riuscirono? Fino a che punto? E a quale prezzo?
Sono passati 50 anni da quelle idee di rivolta e oggi si tenta un bilancio, si cerca di recuperare pezzi di verità con cui ricostruire un puzzle e riordinare vicende che non fanno più parte della cronaca, però ancora non sono Storia. Una serie di eventi e manifestazioni sono già in programma in tutta Italia, ma a fare i conti comincia Pisa, città dove la protesta ebbe inizio e punto focale della dura contestazione che uscirà dalle aule per trasferirsi lungo le strade cittadine, lasciando scie di sangue.
Il segnale che c'era qualcosa nell'aria era arrivato anni prima proprio nella storica Sala degli Stemmi della Scuola Normale Superiore, in cui un Togliatti ormai vecchio e stanco aveva appena finito di parlare dei comunisti e della crisi del secondo dopoguerra. Siamo nel 1964. Moro gestiva il suo primo governo mentre gli italiani si entusiasmavano per il primo spaghetti-western di Sergio Leone - Per un pugno di dollari -. Ma quel 3 marzo un normalista dalla voce nasale, poco più che un ragazzino, non esita a intervenire al termine della conferenza chiedendo a Togliatti con aria baldanzosa perché i comunisti in Italia non avessero fatto la rivoluzione. La risposta del politico fu vaga, probabilmente irritata, e troncò la discussione: 'Devi ancora crescere. Provaci tu a fare la rivoluzione'. Con la stessa irriverenza di prima lo studente replicò senza esitazione: 'Ci proverò'. Togliatti morirà pochi mesi dopo.
Di quel ragazzo, invece, si sentirà parlare a lungo. Adriano Sofri verrà cacciato dalla Normale l'anno successivo non per motivi scolastici o politici, ma solo perché fu sorpreso in stanza con la fidanzata, sua futura moglie. Terminerà gli studi di Lettere fuori dal collegio, avrà due figli, farà l'insegnante di liceo e diventerà uno dei capi più carismatici e ascoltati del Sessantotto italiano, fondatore poi di Lotta Continua. Condannato a 22 anni di carcere per l'omicidio Calabresi in seguito alla confessione di un ex compagno, Leonardo Marino, nel 2012 Sofri, che non ha mai voluto chiedere la grazia, ha finito di scontare la pena ed è di nuovo libero.
È da quell'atto di irriverenza verso Togliatti che prende il via una mostra fotografica nel pisano Palazzo Blu, proprio sui lungarni che furono teatro di tante manifestazioni e scontri. Sono le immagini di un fotoreporter, Luciano Frassi, che è stato testimone dell'intero periodo, lasciando una documentazione preziosa per chiunque voglia conoscere o rileggere vicende di un recente passato. A curare la mostra sono Stefano Renzoni e Giuseppe Meucci, quest' ultimo allora giovane cronista che raccontava giorno dopo giorno gli avvenimenti pisani. Oggi ce li ripropone in un catalogo (Pacini Editore) insieme alle foto di allora.
Eccoci dunque nel 1967 dentro la Sapienza occupata, con studenti che preparano il vettovagliamento e stendono coperte per la notte, incuranti di 'profanare' uno dei templi sacri dell'ateneo pisano - e non solo - dove ancora risuonano gli insegnamenti di Galileo. Nacquero lì, in quel preciso momento, le famose 'Tesi' da cui ufficialmente in tutta Italia prese il via il 'Sessantotto'. Poi arrivarono i cortei, le agitazioni e gli scioperi studenteschi che si fusero con quelli degli operai della Marzotto e della Saint Gobain, minacciati di licenziamento. Poco dopo ci saranno le prime violenze, le prime molotov, i primi scontri diretti con la polizia.
Ora siamo dentro la Casa dello Studente, dove l'esponente missino Pino Rauti era stato invitato a parlare e dove la protesta finisce a seggiolate. Vere, dure e senza esclusione di colpi. Ci sono anche feriti: tra questi Giorgio Pietrostefani, lo stesso chiamato anni dopo da Leonardo Marino a rispondere dell'omicidio Calabresi insieme a Sofri. Dalle aule alle strade il passo è breve: cominciano i blocchi stradali, la guerriglia urbana e il lancio di lacrimogeni. E ovviamente i processi che vedono sul banco degli imputati molti studenti e alcuni capi del movimento. Tra il pubblico in Tribunale spunta anche un giovanissimo Massimo d'Alema, sempre rimasto nel Pci, ma assiduo partecipante delle manifestazioni. Nell'introduzione al catalogo lui stesso racconta il suo primo giorno a Pisa, dove arrivò come studente della Scuola Normale. Fece appena in tempo a lasciare le valigie in portineria per poi precipitarsi, insieme a Fabio Mussi, cento metri più là, nel cortile della Casa dello studente e lanciarsi nella battaglia contro Pino Rauti. "Fu il battesimo di sangue (poco fortunatamente) di un anno straordinario sul piano umano, culturale e politico", scrive.
Saranno però anche anni turbolenti, non solo a Pisa, ma anche in altre città del nord, come Torino e Trieste, con le quali i collegamenti sono ormai stabiliti. Eppure la maggior parte dell'Italia appare distratta: Gaber nel 1968 canta Sulla mia torpedo blu, mentre due anni più tardi ben 35.000 persone si affolleranno a Cellino San Marco per il matrimonio di Romina e Al Bano. Sembrano due Paesi diversi che convivono nello stesso spazio ma non si incontrano mai, come se parlassero due lingue incomprensibili una all'altra. E se i bambini continuano ad andare a letto dopo Carosello, l'escalation della violenza non si ferma. Due tragedie, tra le molte altre in Italia.
Il 31 dicembre 1968 davanti alla Bussola, locale versiliese 'simbolo' della ricca borghesia, si scatena il putiferio. Alle centinaia di giovani che lanciano pomodori e uova sugli abiti lunghi delle signore in festa risponde la polizia con manganelli e pistole. Uno studente, Soriano Ceccanti, ferito da un colpo di arma da fuoco, vive da allora sulla sedia a rotelle. Qualche anni più tardi, nel 1972, dopo altre vittime, muore in carcere l'anarchico Franco Serantini. Lo vediamo sporco di sangue mentre viene trascinato dalle forze dell'ordine in un lungarno che sembra uscito da un bombardamento: gli studenti volevano impedire un comizio dell'onorevole Niccolai, missino, e la polizia caricò. Serantini era nella mischia e morì per le botte ricevute. Una settimana dopo, eccoci in piazza San Silvestro, in quella ormai tristemente famosa manifestazione dove Sofri e Pietrostefani, secondo i giudici, avrebbero ordinato a Leonardo Marino e Ovidio Bompressi l'uccisione del commissario Calabresi.
La mostra finisce qui. Dopo c'è un'altra storia, quella della 'Lotta armata', della violenza verbale che diventa terrorismo, di gruppi di militanti di Lotta Continua che saltarono il fosso e dalla clandestinità 'applicarono' la lotta di classe uccidendo magistrati, politici e giornalisti. Fino a che punto la spregiudicatezza ideologica e 'la violenza rivoluzionaria' predicata in molte manifestazioni di piazza sono state corresponsabili di questa amara sconfitta? La Storia non è ancora alla giusta distanza per poterlo dire. Su quella prima stagione di proteste studentesche e operaie si comincia invece a vedere più chiaro. E se l'obiettivo del 'tutto e subito' non è certamente mai stato raggiunto, se il 18 politico ha portato alla mortificazione del merito ed è almeno in parte responsabile dello 'scadimento' dell'istruzione, non c'è dubbio che quegli anni produssero anche significativi mutamenti di costume. Quella ribellione giovanile nacque infatti da obblighi sociali e culturali, da vincoli autoritari, sia in famiglia che nelle scuole; nacque, in breve, dalla mancanza di libertà personali e garanzie lavorative.
In questo senso una rivoluzione è avvenuta, dai rapporti genitori-figli a quelli sentimentali tra partner, fino all'autonomia decisionale dei giovani. Conquiste che poi hanno portato al divorzio, alla liberalizzazione della contraccezione, all'interruzione di gravidanza, a una nuova disciplina dei reati di sangue compiuti in ambito familiare e molto altro ancora. Scrive nel catalogo della mostra Andrea Mariuzzo, docente della Scuola Normale: "Sono questi cambiamenti diffusi, avvenuti per molti versi attraverso canali sotterranei e di difficile documentazione pubblica, a rappresentare l'impatto più duraturo e socialmente più significativo di una 'rivoluzione' che effettivamente avvenne, anche se in forme diverse rispetto a chi la invocava a gran voce tra i 'sessantottini'".
Ma forse fu proprio il loro essere così velleitari e autoreferenti a isolarli. Loro, i ribelli, non riuscirono mai a confrontarsi davvero col resto dell' Italia e del mondo, perpetrando i loro abbagli ideologici fino alle ultime conseguenze. Né l'autocritica è stata successiva. Ancora meno l'autoironia. Tra le rare eccezioni un film diretto da Roan Johnson che però negli anni della contestazione non era ancora nato. Lui il Sessantotto lo ha conosciuto attraverso gli occhi di Renzo Lulli, che poi ha curato la sceneggiatura del suo film I primi della lista. Racconta con i toni della commedia e con una salace ironia, di tre giovani musicisti pisani contestatori, protagonisti di una rocambolesca fuga in Austria per non essere vittime di un presunto colpo di stato, ovviamente inesistente, frutto delle fantasie rivoluzionarie. Finiti in un carcere austriaco, saranno poi 'recuperati' da imbarazzati genitori. La storia è vera, avvenne nel 1970, e proprio Lulli fu uno dei protagonisti. Sic transit gloria mundi.