Il termine “usura” evoca oggi, nel linguaggio comune, una specifica figura di reato sanzionata dal diritto penale, collegata all’ipotesi del prestito monetario a un interesse notevolmente superiore a quello correntemente praticato nel settore bancario, con conseguente eccessivo arricchimento e vantaggio derivante dal possesso e investimento del denaro.
In passato, all’espressione “usura” non venivano attribuiti la valenza negativa e il significato dispregiativo che ritroviamo invece nella comune accezione moderna. Infatti, soltanto negli ultimi secoli il termine “usura” ha assunto il significato di “eccessivo interesse richiesto per un prestito o un mutuo”, fattispecie che genera un’ingiusta sproporzione ritenuta illecita. In precedenza, il termine usura o usurae, derivante etimologicamente dal latino usus (uso) e uti (usare), indicava semplicemente il “compenso dovuto per l’utilizzo del capitale altrui”, il beneficio aggiuntivo, oltre alla restituzione del bene prestato, che veniva riconosciuto – per legge o per contratto – dalla parte che aveva ricevuto in prestito un bene mobile a favore della parte che aveva erogato il credito. Scriveva in merito Papiniano (giurista romano, II sec. d.C.): usura non natura pervenit sed iure percipitur (brocardo che può essere tradotto: l’interesse non deriva dalla natura delle cose, ma si percepisce per legge).
Il primo testo normativo in materia di usura è contenuto nel cosiddetto Codice di Hammurabi redatto a Babilonia in epoca compresa tra il XX e il XVII secolo a. C. Infatti, all’interno dei 282 “articoli” del Codice si rinvengono alcune disposizioni in tema di pratica dell’usura che riguardano soprattutto il settore dell’agricoltura, dove veniva ampiamente praticato soprattutto il prestito di alimenti che, tenuto conto dell’economia rurale dell’epoca, era il tipo di prestito a interesse prevalente.
Successivamente, si rinvengono riferimenti al tema dell’usura anche nei libri del Pentateuco, i primi cinque libri della Bibbia (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio) redatti nel VII secolo a.C. In particolare, nel libro dell’Esodo (22,24), nel momento in cui viene dettato a Mosè il Codice dell’Alleanza, Dio dice: Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con me, non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse. Come si può rilevare dal brano citato, il divieto di usura non era assoluto, in quanto le prescrizioni ebraiche consentivano il prestito a interesse nei confronti dei soggetti estranei alla comunità israelita e ciò permise agli Ebrei, soprattutto nel Medioevo, di gestire in diversi Paesi il mercato del credito.
Nell’antica Grecia, nel periodo classico (V – IV sec. a.C.), i filosofi definivano “innaturale” il prestito a interesse, in quanto essi rilevavano che le monete non potevano produrre frutti come gli alberi, ma piuttosto si logoravano con l’uso. Le pratiche di usura e di anatocismo (interesse composto) erano considerate sordide e immorali e pertanto generalmente non venivano applicate dal banchiere greco.
La condanna morale dell’usura nell’antichità si ricollega anche alle particolari caratteristiche dell’economia che, in quel periodo storico, era prevalentemente agricola. La coltivazione della terra era assicurata dagli schiavi, senza particolare apporto di beni strumentali, poco presenti sia nella gestione delle aziende agricole sia nell’esercizio delle attività artigianali. Poiché l’economia del tempo non necessitava di grandi investimenti di capitale, le aziende facevano ricorso al credito solo in casi eccezionali e, pertanto, l’usura veniva praticata quasi esclusivamente nei confronti dei soggetti privati che contraevano quello che oggi si definisce “credito al consumo”, piccoli prestiti per esigenze contingenti. Non poteva sicuramente essere amato chi prestava denaro a interesse lucrando su necessità, bisogni e disgrazie dei cittadini.
In epoca romana, il prestito era in origine, per sua natura, gratuito, in quanto presupponeva un rapporto di amicizia o di parentela tra le parti. Nel diritto romano, infatti, il mutuante poteva pretendere in restituzione soltanto quanto prestato in linea capitale (la stessa somma data in prestito, definita tantundem), tramite la cosiddetta actio certae creditae pecuniae (o rei, nel caso di mutuo di cose mobili), azione a tutela di un determinato credito monetario o reale. Il diritto a ottenere gli interessi presupponeva invece una esplicita stipulazione ad hoc, un ulteriore contratto definito stipulatio usurarum.
Qual era il livello dei tassi di interesse in epoca romana? La determinazione delle usurae era devoluta alla volontà e autonomia negoziale delle parti, tuttavia l’ordinamento romano cominciò a prevedere dei limiti fin dai tempi più antichi, soprattutto al fine di calmierare i tassi applicati ai prestiti a breve termine di derrate alimentari o di sementi, in quanto divenuti elevatissimi. Il primo limite di cui si ha notizia è il cosiddetto fenus unciarum, pari a un dodicesimo del capitale (8,33%), tenuto conto che uncia era la dodicesima parte dell’asse. Il limite massimo del tasso era stabilito in ragione di mese e, pertanto, non potevano pattuirsi usurae (fenus) in misura superiore a 1 uncia (1/12) del capitale per ogni mese (8,33% mensile, pari al 100% annuo).
Il fenus unciarum venne introdotto, secondo Tacito, con le Leggi delle XII Tavole (450 a.C.), mentre secondo Tito Livio risale a un plebiscito del 357 a.C. Successivamente, con l’introduzione della moneta e la diffusione dei prestiti a lunga scadenza, si perviene a una riduzione del livello dei tassi applicati e, verso la fine del periodo repubblicano, il tasso massimo consentito risulta pari al 12% annuo (usurae centesimae, 1% mensile). Tale nuovo limite massimo del tasso, introdotto con un senatusconsultum del 51 a.C., rimase in vigore per diversi secoli fino all’epoca di Giustiniano (482-565 d.C.). Gli interessi corrisposti in misura superiore al tasso massimo erano vietati e dovevano essere imputati al capitale.
Erano inoltre vietate le cosiddette usurae ultra duplum, ovvero gli interessi che comportavano la riscossione da parte del mutuante di una somma superiore al doppio del capitale, ed era ritenuta illecita la pratica dell’anatocismo, ovvero il computo degli interessi scaduti in aggiunta al capitale, così da produrre a loro volta interessi.
Accanto alla statuizione di limiti e regole in materia di corresponsione degli interessi, che nel tempo vennero applicati in misura diversificata in funzione del tipo di prestito, delle esigenze di mercato, delle qualità delle parti contraenti, l’ordinamento romano prevedeva la repressione delle usure illecite, praticate da coloro che pretendevano interessi ultra modum. La sanzione comminata all’usuraio, sia civile sia penale, aveva sempre natura pecuniaria e consisteva generalmente in ammende ovvero, in alcuni periodi storici, nella pena del quadruplo (versamento di una somma pari a quattro volte gli interessi illecitamente percepiti) e nell’inflizione dell’infamia.