Verdi musicò il Don Carlo su un libretto tratto da un dramma di Schiller ambientato nel 16° secolo in Spagna, ai tempi dell’inquisizione. Riproponendo tutta la complessità del dramma storico, ci ha lasciato una grandissima opera, che è anche la sua più lunga: il Don Carlo è un lavoro monumentale, che affronta una gamma infinita di dilemmi morali, ad ognuno dei quali Verdi offre da par suo un individuabile volto umano.
Dal momento in cui l'opera fu rappresentata per la prima volta a Parigi nel 1867, essa ha avuto diverse riscritture ma due sono le versioni rappresentate comunemente: quella su libretto francese (Don Carlos) in cinque atti, e l’altra su libretto italiano (Don Carlo, senza la s), che di atti ne conta quattro.
Nella scena iniziale della versione francese, Carlo, l’Infante del re Filippo di Spagna, si aggira nel bosco di Fontainebleau. Come parte di un trattato di pace tra le due nazioni, gli è stata promessa la mano della principessa Elisabetta di Valois, e la splendida aria di apertura, in cui Carlo confessa il suo amore per lei, “Io la vidi”, ci trasporta subito nel centro emotivo della storia.
Appare Elisabetta e i due, in un duetto memorabile, subito si dichiarano reciproco amore. Ma, con uno dei tipici rovesci del destino con cui Verdi ama maltrattare i suoi personaggi, il padre di Elisabetta dichiara che la giovane deve invece sposare il re Filippo, il padre di Carlo. Lacerata tra il desiderio di amare e il dolore per il suo fato crudele, Elisabetta sceglie infine il dovere invece che la felicità.
Carlo intanto, che è turbato dal fantasma di suo nonno, il re Carlo V, vive una vita infelice a corte. C’è una cupa intensità in questo personaggio che si manifesta in una certa qual fanciullesca ombrosità. Il suo amico e confidente Rodrigo, marchese di Posa, è uno di quei paladini della libertà (sostiene la causa delle Fiandre oppresse) che tanto piacevano a Verdi ed è forse il personaggio drammaturgicamente più bello dell’opera, anche se non il più avvincente musicalmente.
In Don Carlo vi sono diversi numeri musicali di grande bellezza, e alcuni sono particolarmente cruciali per lo sviluppo della trama. Nel secondo atto, la Principessa Eboli, dama di compagnia di Elisabetta, canta la canzone del velo “Nel giardin del bello”, in cui racconta la storia di un sultano stanco della moglie che chiede per amante una danzatrice velata. Alla fine, la danzatrice si rivela essere sua moglie, e così desiderio e dovere almeno per una volta convergono.
Verdi riscrive questo episodio a modo suo all'inizio del terzo atto: la principessa Eboli, innamorata di Carlo, si presenta mascherata a un appuntamento notturno con lui. Quando lei si svela, Carlo è sconcertato: pensava che Elisabetta gli stesse finalmente cedendo. Certo una conclusione meno felice di quella della canzone del velo.
Nella scena successiva arriva il Grande Inquisitore accompagnato da una lugubre marcia funebre: per lui gli eretici (i ribelli) devono bruciare. Il coro (il popolo), esulta nel vedere i traditori messi al rogo. Gli appelli dei fiamminghi per la libertà cadono nel vuoto; Filippo è implacabile e Carlo viene arrestato per aver difeso la loro causa. Il clima della controriforma spagnola, fatto di assolutismo monarchico e fanatismo religioso, viene reso superbamente in questa scena. Mentre gli eretici bruciano, una voce di soprano che canta in lontananza, promette che essi saranno ricompensati in cielo.
Il compositore considerava la scena dell’autodafé la cosa migliore nell'opera; ma è solo nell’atto successivo che si giunge al vero climax. Filippo, solo nel suo studio, si dispera che la moglie ami un altro (“Ella giammai mi amò”). Intanto il Grande Inquisitore, animato da un irriducibile fuoco, lo incita a non mostrare alcuna pietà per il figlio ribelle. Filippo non vorrebbe essere così duro, ma "Tutti devono essere messi a tacere per esaltare la nostra fede", è la richiesta dell'Inquisitore. Qui il duetto tra i bassi è straordinario, letteralmente da brividi. La complicata storia compositiva dell’opera si riflette nel finale irrisolto, in cui non tutti i fili del Don Carlos vengono tirati. Il duetto di addio tra Elisabetta e Don Carlo è meraviglioso, e quando appare il vecchio re Carlo V (il suo fantasma?) che porta con sé (in cielo?) suo nipote prima che venga arrestato, tutto sembra confondersi di nuovo.
Don Carlo è forse il primo frutto pienamente maturo dell'arte verdiana, in cui il compositore rende più densa la sua drammaturgia e affina il linguaggio con cui descrive le passioni dei personaggi, mostrando sempre la sua profonda partecipazione umana alle vicende che descrive. È il lavoro più tenebroso di Verdi, con i suoi colori forti che spiccano su uno sfondo cupo, come in un quadro di Caravaggio o di Velasquez, in cui si intrecciano conflitti personali, controversie politiche e dispute teologiche, che culminano in un finale ad alta intensità drammatica, che può facilmente lasciare gli spettatori a chiedersi qual è veramente l’epilogo.
Un tema però domina su tutti gli altri, ed è forse quello più caro a Verdi: la continua, disperata ricerca di una soluzione a un dilemma da sempre presente nella cultura occidentale, a cominciare dall’Antigone di Sofocle: il conflitto fra il dovere pubblico e la libertà individuale, il diritto di cercare la propria felicità. È un dilemma che aveva già tormentato Simon Boccanegra e ancor prima i protagonisti della Forza del destino, come pure il Riccardo del Ballo in maschera. Anche in Don Carlo quel conflitto si risolve nella scelta consapevole dell’infelicità: Elisabetta si piega alla ragion si stato, accetta di sposare Filippo II, rinunciando all'amore per Don Carlo.