Amo dunque sono: romanzo epistolare realizzato nel 1927 è, anche nel titolo, come la cifra esistenziale di Sibilla Aleramo, lo stigma che segnerà tutta la sua sofferta esistenza: “L’amore esiste. E chi mi vedeva così persistere nella ricerca, che pareva una dannazione, chi mi vedeva conservare, nonostante ogni tragico fallimento, la perenne possibilità di risorgere con un sorriso di bimba, e tosto riaggrapparmi a nuove illusioni e in quelle cercare sempre istanti di magnifica passione … sussurrava: questa donna crede cercar l’amore e invece cerca Iddio ...”.
Ma quale amore? Quello per la liberazione della donna, o quello filantropico per poveri e diseredati, o quello per una sessualità trasgressiva, o quello per l’affermazione di se stessa come scrittrice? Come ha scritto Lea Melandri, “La narrazione di sé compiuta da Sibilla Aleramo, lunga e appassionata, quanto la sua vita, è perciò doppiamente interessante e anticipatrice di una rivoluzione delle coscienze che sarebbe avvenuta nella seconda metà del Novecento. Innanzi tutto perché sottrae al silenzio della vita intima una vicenda – l’illusione amorosa – che interessa entrambe i sessi, ma che è stata identificata con la donna, madre e amante, corpo erotico e corpo che genera”.
In Amo dunque sono, emerge una forte componente passionale: “Felicità e spasmo … quando ci baciavamo … così, distesa, io restavo, affascinata, le braccia aperte protese. Ancora una volta il bacio non ci aveva dissolti, e ancora una volta le labbra tornavano a congiungersi, in una sfida temeraria ...”, ma se è vero, come è stato scritto, che tutta la sua vita è un’autobiografia, non si può dimenticare che a monte di tutto il suo tortuoso itinerario c’è l’assenza dell’affetto della madre, morta pazza in manicomio, l’indifferenza del padre e una violenza subita a 15 anni con conseguente matrimonio riparatore coatto.
Difficile crescere e maturare con alle spalle un tale deserto e Sibilla, per uscire da questo cerchio perverso, comincia, precocissima, a leggere, a scrivere, a farsi una ragione della sua condizione di donna, moglie e madre involontaria, così come tante altre sue simili, costrette a subire silenziosamente. E da qui scatta la rivolta, che la porterà al gesto estremo di abbandonare marito e figlio per correre il rischio dell’emancipazione.
Fondamentale, sia da un punto di vista umano, che letterario e politico, il suo incontro con Giovanni Cena, che fra l’altro, le suggerirà il nome d’arte di Sibilla Aleramo, in sostituzione del suo più prosaico anagrafico Rina Faccio e le sarà vicino nella composizione di Una donna, forse il suo romanzo più riuscito, in cui testimonia il suo doloroso calvario di adolescente deprivata e abusata. Ma il Cena, che per lei costituì la figura sostitutiva del padre, non poteva soddisfare il suo bisogno di essere desiderata come donna. Bisogno che si realizzò invece nell’amore saffico per la ravennate Cordula Poletti, che conobbe nel 1908, e di cui scrisse "Ti cedo con franco tremore e un tenero rossore su la guancia …" Il suo disperato e compensativo bisogno di amore la portò poi a imbattersi in un devastante rapporto con Dino Campana: “L’amore divampò, in un delirio selvaggio”. Si gettarono in un’inappagabile pulsione di penetrazione totale, che si trasformò in un incrocio sadomasochistico da cui Sibilla uscì segnata e Dino spinto sempre più verso la follia: “Ad ogni lividura più mi prostravo … s’abbatteva il pugno, e folle lo sputo sulla fronte che adorava … ma ora che son fuggita, ch’io muoia del suo male!”
E a questa seguirono tanti altri incontri sfortunati, dove, paradossalmente, colei che tanto aveva combattuto per la dignità della donna, si trovò in balia di uomini approfittatori, che la costrinsero a vessazioni e a una vita nomade che la portò anche al collasso economico. Costretta a mendicare un sussidio allo stesso Mussolini, proprio lei che aveva firmato il Manifesto degli intellettuali antifascisti, riuscì ad avere un assegno mensile e le furono aperte le porte di giornali e riviste prestigiosi, potendo così raccomandare ulteriormente i suoi interessati amanti. Solo nel secondo dopoguerra, liberatasi da quella che Gobetti definì una “monotonia fisiologica”, ritrovò l’impegno sociale della sua giovinezza: “Dopo essermi tutta la vita illusa nella creazione d’amore per singoli individui, ecco … la sola cosa concreta è la stretta di mano dei compagni operai, il supremo conforto …”.