Mandorla, cioccolato, cassata e nocciola: sedute l’una accanto all’altra, gustavamo quel gelato come avevamo fatto da bambine, complici di un rito che avrebbe legato le nostre vite per sempre.
Attorno gli avventori sorseggiavano caffè. Qualcuno versava acqua nella granita di limone per far durare più a lungo il piacere del suo fresco sapore.
Negli occhi di Lucia c’era quell’espressione malinconica che così spesso avevo visto sul suo volto.
Erminia la osservava. Il suo sguardo era protettivo ma non voleva darlo a vedere. Era stato sempre così, come se da tempo immemorabile avesse accettato questo compito: era lei a doversi prendere cura di Lucia. E intanto continuava a gustare il suo gelato.
Mi è tornato in mente quando abbiamo visto le acrobazie di quel fantastico equilibrista. Fu dopo la gita in barca: il sole splendeva ancora, le rocce a picco sul mare, la pienezza di una giornata festosa ed ecco giungere la malinconia, e non voleva andarsene. “È così la vita” mi hai detto “Un ondeggiare per reggersi sul filo delle cose, come l’equilibrista!”
Avevo conosciuto Lucia in quella grande cucina sempre intrisa dell’odore di salsa di pomodoro. Questo almeno è il ricordo che affiora alla mia memoria forse perché era d’estate quando la vidi per la prima volta: un’estate al Sud. Una bimba minuta dallo sguardo dolcissimo. Si muoveva tra cose e persone con una leggerezza che non ho mai dimenticato, quasi che il suo corpo non avesse peso. A volte sembrava persino che gli altri non la vedessero.
Mi aveva salutato con quella piccola mano delicata ed avevo subito accettato il suo invito a guardare le fotografie che custodiva in una scatola di latta sulla quale era stampata l’immagine di una gondola. Quanto eravamo felici su quel prato fiorito! Quanto pesa la lontananza dalla favola bella del tempo che fu! È là, nella quiete del cuore che mi piace talora fare ritorno come a un paradiso perduto.
Conservo ancora i sassolini che con tanta cura avevamo raccolto per poi farne una collana. Era il nostro primo gioiello, ne andavamo molto fiere. Credo di non averne mai più indossato uno tanto prezioso.
Erminia era l’amica di Lucia, l’amica più grande. Le avevo viste sempre insieme. C’era tra loro un’intesa che le rendeva forti, invincibili. Nessuno avrebbe potuto entrare in quella fitta rete di sguardi, di parole non dette, di piccole gioie condivise che, col passare degli anni, sarebbero divenute grandi dolori, ma sempre vissuti insieme. Quella volta avevamo indossato l’abito bello per andare a sentire la musica. Qualche goccia di violetta come vedevamo fare dalla zia Nettì quando la domenica pomeriggio si preparava per andare a passeggio con il fidanzato.
Erminia aveva messo per la prima volta un velo di rossetto e noi la guardavamo con grande ammirazione.
L’orchestrina sulla piazza suonava con impegno: qualche valzer, uno scintillante fox trot, il fruscio dei vestiti leggeri, l’aprire e chiudersi dei ventagli.
Le piaceva ballare. Il suo corpo flessuoso e felice si muoveva al ritmo pulsante dello swing. Di cavalieri ce n’erano pochi e avevamo danzato tenendoci per mano.
Era come salire sulla carrozza delle favole. E lo scoccare della mezzanotte sembrava allora così lontano. Vorrei riascoltare quella musica tessuta nella luce del crepuscolo: chissà se ancora mi farebbe sobbalzare il cuore.
Nel viso bambino di Erminia si facevano notare i piccoli occhi scuri che guardavano lontano come se vedessero ciò che nessun altro poteva vedere. Forse per questo vicino a lei ci si sentiva sicure come se sapesse preservarti da ogni pericolo.
Mentre le osservavo stando seduta al tavolino del “Caffè Tripoli” mi rendevo conto che non erano cambiate. Quanti anni erano passati? Non volevo chiedermelo o forse a quella domanda che mi veniva alla mente avrei potuto rispondere che il tempo non poteva riguardarle: loro erano bambine e donne da sempre e per sempre.
Mancava Maria ma non avevo bisogno di vederla per poterla pensare accanto a me, piena di tenerezza. Ci aveva subito legate quella consolante tristezza che scorre tra le anime che conoscono il dolore.
Insieme eravamo salite al grande albero.
Le vecchie del paese dicevano che lì una volta aveva parlato la donna del mistero. Inutilmente avevamo cercato di conoscere la profezia: “quando sarete grandi “ ci avevano detto, ma a pensarci bene non venne mai il giorno della rivelazione.
Ricordo con quanta paura andammo verso la piccola casa in fondo al cortile. Quella porta chiusa esercitava un’irresistibile attrazione. Si diceva che lì si fosse uccisa la donna che l’intero paese sembrava voler dimenticare.
Non capivamo bene che cosa volesse dire uccidersi, ma sapevamo che cosa fosse la morte: l’avevamo vista negli animali e poi quella volta che, di nascosto, avevamo spiato nella stanza di Adele, distesa sul letto con le donne che piangevano attorno a lei mentre nella camera accanto si udivano le grida del piccolo appena nato.
Fummo cacciate in malo modo; non erano cose da bambini, ma noi avevamo capito che la vita e la morte a volte vengono insieme e non si sa per quale delle due si piange.
Era quasi impossibile per me arginare tutti questi ricordi che mi assalivano con violenza.
Quanto avevo atteso il momento in cui ci saremmo ritrovate!
Avremmo di nuovo fatto il giuoco che ci piaceva tanto: sedute in cerchio avremmo cominciato a volare, a volare in alto attraverso deserti e città per sentire la carezza del vento, per andare nell’infinita leggerezza dell’immenso cielo; avremmo volato sopra gli oceani a scoprire terre lontane dove il giorno non ha fine, dove la notte è luce di eterne stelle.
E poi, al ritorno, ci saremmo preparate i biscotti con la marmellata.
Era con un po’ di timore e un certo senso di sfida che ci mettevamo a riposare accanto al grande stagno circondato dagli alberi ombrosi quando il caldo dell’estate si faceva sentire. C’era divieto assoluto di avvicinarsi troppo all’acqua e ancor più di toccarla anche soltanto con la mano. Stare lì era come contemplare il potere del divieto, ammettere che non eravamo libere di inseguire la curiosità del cuore. Ce ne stavamo lì in un silenzio complice e intenso come attendendo risposte ai nostri dubbi, alle nostre domande: senza saperlo stavamo imparando che c’è sempre un desiderio nel quale vorremmo immergerci e al quale rinunciamo per seguire ciò che si deve.
Quante volte quell’immagine si è ripresentata alla mia memoria, quante volte come allora mi sono seduta ad aspettare, senza parole che mi aiutassero a comprendere.
Erminia e Lucia avevano finito il gelato.
Maria ci aspettava alla grande casa. La pensavamo dietro le persiane a guardare la strada per vederci arrivare. Le piante di basilico si annunciavano con il loro profumo esagerato: sulle finestre il rosso dei gerani.
Dovevamo comprare il pane per pranzo.
Attraversammo il mercato tra l’odore di spezie.
Saremmo state di nuovo sedute accanto.
Era dunque tornato il tempo della felicità? Mi dissi di sì.
Ci avviammo insieme verso la piazza e sentivamo forte la tentazione di prenderci per mano come allora. Ci guardammo e fu come se ognuna di noi avesse spalancato una porta chiusa da una vita intera: immagini, vetri rotti, brandelli di cose e persone rotolarono fuori come sospinti da un turbine. Fu un attimo e poi le nostre forze si unirono per richiudere tutto ben bene: troppo passato non potevamo permettercelo. Salimmo in macchina parlando del tempo che stava cambiando.
Era passato un mese e non avevo ancora avuto notizie. Sentii persino il rumore della busta che il postino aveva lasciato cadere. Scesi velocemente le scale: doveva essere proprio la risposta che aspettavo. Mi chiedevo perché mai sentissi il cuore sobbalzare: non era la prima volta e poi non potevano esserci sorprese. La mia scrittura sapeva commuovere, così densa di vita e di emozioni. E poi tutto il mio amore per le parole, il piacere intenso di giustapporle con cura, di guardarle entrare in quella vita che io stessa davo loro mentre le rendevo protagoniste delle storie partorite dai miei pensieri. Io sapevo parlare di sentimenti ed ero certa che di questo c’era ancora bisogno. Come sono solita fare aprii la lettera lentamente senza dilaniare la busta. Ebbi la sensazione che il foglio scivolasse fuori con una certa arroganza. Mi parve che stesse aspettando la mia reazione. Lessi e seppi la verità: la mia scrittura era troppo datata, con un taglio “al femminile” ormai obsoleto, troppo lontana dall’essenzialità che caratterizza la comunicazione, con un approccio al reale poco attento alle problematiche sociali. Tra le righe mi parve di intuire che l’editore mi considerava anche troppo vecchia. Ho richiuso la lettera e mi sono seduta a sorseggiare un bicchiere di fresco carcadè aspettando che altre parole venissero a trovarmi. Per fortuna ce ne sono ancora tante da scrivere, da dire, da cantare e la nostra voce può dirne e cantarne all’infinito. Quelle che mi hanno accompagnata nel racconto sono custodi di una grande, preziosa, mai finita amicizia.
A cura di Save the Words®