Erano gli anni successivi alla rovinosa spedizione ateniese in Sicilia, anni di forte instabilità politica, che costringevano la città, da tempo in guerra con Sparta, a confrontarsi con le sue più grandi paure. Di poco posteriore all'Elettra di Euripide, anche questa di Sofocle fa eco ad un'epoca di profonda crisi, anche questa concepita da un poeta disilluso che nella perversione dei più stabili vincoli familiari riassumeva il male del suo tempo. Un clima di sfiducia e diffidenza domina il rapporto tra Elettra e Clitemnestra, un rapporto in cui la “vicinanza” fisica e biologica (vv. 551, 640, 1105) non sottende più quella emotiva e l'unico distorto residuo di reciprocità tra figlia e madre si manifesta in un perenne contraccambio di accuse e recriminazioni (vv. 221, 223, 256, 523-524, 552-553, 619-620, 622-623).
Ma è soprattutto l'esecuzione delle pratiche funebri a riflettere la gravità della situazione. Nessuna cerimonia regolare è officiata per la morte di Agamennone; ogni mese la sposa assassina ne celebra la ricorrenza sacrificando agli dei salvatori e allestendo banchetti oltraggiosi (vv. 277-281, 284). Nessun lamento è intonato dalle donne, se non da Elettra, ed è furtivo e isolato, non più depositario di una sofferenza condivisa (vv. 100-101), impossibile da contenere entro i limiti che la polis aveva da tempo imposto alle manifestazioni private del lutto. Nell'assiduo ricorso al lessico del compianto, nell'intento di non desistere mai dalle lacrime (vv. 103-104, 107-109, 132-133, 223-224, 231), nell'indulgere ad un tormento implacabile (vv. 164-5, 230-232, 259, 600), Elettra evoca lo spettro di un passato che l'ordine civico sembrava aver tacitato e incarna l'aspetto più ancestrale e minaccioso di una memoria del dolore che, rifiutando di porsi al servizio dell'ideologia cittadina, aveva sempre avuto il potere di minare la vita associata alimentando il più anti-politico dei sentimenti. Nulla consente di riconoscere aneliti di giustizia in Elettra: ella invoca un atto di vendetta, in cui il risentimento che fomenta impugnando come un'arma il ricordo ossessivo di un padre “incapace a sua volta di dimenticare” (v. 482), si confonde con un desiderio di rappresaglia che travalica l'imperativo di riequilibrare l'uccisione paterna e di fronte al quale quell'uccisione a tratti pare persino ridursi a pretesto (v. 525).
Nondimeno, in un teatro che mai si esaurisce nella denuncia, la tensione di Elettra a tenere vivo un rancore da cui il demone della sua memoria non le concede tregua, diventa lo strumento privilegiato attraverso cui si profila una svolta efficace a far luce - almeno in parte - su una vicenda tanto cupa. L'insistenza con cui Elettra, incalzata dalla sua incapacità di oblio, ha mantenuto vigile nel tempo l'attenzione sulla violenza sopportata come su quella da dover (e voler) restituire, l'ha obbligata a prendere coscienza dell'identica natura di entrambe, restituendole di sé l'unica immagine in grado di guarirla, perché intimamente vera.
Inutile cercare segni d'innocenza in quest'Elettra che il coro dice "figlia di scelleratissima madre" (vv. 121-122). Invano ella si sforza di soffocare tale origine nell'odio (vv. 97, 261-262, 273) e di sconfessarla dichiarandosi "orfana" (v. 187); invano se ne proclama estranea, rivelandosene al contrario irrimediabilmente corrotta e testimoniando l'assurdo di un mondo capovolto in cui a null'altro vale più il sangue se non a riprodurre il male. Della regina Elettra ripropone i comportamenti degenerati (vv. 307-309, 606-609, 621) e nessuna differenza separa gli appelli dell'una ad una maternità ormai svuotata di ogni pregnanza e invalidata ad offrire e a pretendere fedeltà (vv. 532-533, 596, 613, 770) dai tentativi dell'altra di mascherare il proprio abbrutimento dietro i vagheggiamenti di una più rassicurante discendenza esclusivamente paterna.
Eppure, Elettra trae una reale possibilità di riscatto solo arrendendosi alla sua somiglianza con colei che le è "padrona, non meno che madre" (dunque, pur sempre madre) (vv. 597-598), solo convincendosi che l'avere in sé le stesse risorse di quella donna possa aiutarla a trasformare la sua ingombrante eredità in energia rigeneratrice. "Non era diversa la mia natura, ma nel pensiero ero meno risoluta" (v. 1023): queste le parole di Elettra che accoglie la relazione con la madre come quella per lei più significativa. Come Ismene, è una figura "di frontiera", capace di proiettarsi verso il "fuori", perché disposta ad abbandonarsi al "dentro" cui appartiene (vv. 78, 109, 155, 313, 328, 518, 802, 818, 1052); come Ismene, consapevole di non poter progettare alcun domani senz'avere il coraggio di guardare onestamente al proprio ieri.
A liberarla è, dunque, l'attuarsi della violenza più estrema, la cui realizzazione è stata predisposta proprio da quella condotta furtiva e menzognera che Oreste ha a sua volta assimilato dalla madre (v. 11); condotta di cui Elettra ha tardato a intuire l'efficacia e che spinge Clitemnestra a riconoscere nel figlio redivivo uno "nato dalla sua propria vita" (vv. 775-776). Non c'è pietà nell'accanimento con cui Elettra incoraggia il fratello a infierire sulla madre (vv. 1415), non c'è esitazione nella crudeltà con cui si augura che cani e uccelli smembrino le carni insepolte di Egisto (vv. 1487-1489), come non c'era stato scrupolo nella ferocia con cui la sovrana adultera aveva straziato il cadavere dello sposo (v. 445). Violenze imparentate che il testo non manca di evocare in ogni gesto compiuto "di persona": è violento il matricidio che "di propria mano" Elettra desidererebbe realizzare (vv. 37, 455, 1019) e Oreste adempie (vv. 1394, 1422), è stato violento il regicidio consumato dai nemici (vv. 126, 206, 955). Violenze per cui non vengono fornite attenuanti né giustificazioni; violenza brutale quella rovesciata sulla madre, non diversa da quella imposta al padre, ma che, lucidamente assunta in tutta la sua drasticità, segna il passaggio ad una realtà profondamente rinnovata.
Non rinuncia alla sua vocazione politica Sofocle, neppure ora: è sua la speranza che si cela nell'immaginarsi di Elettra ancora inclusa in un contesto civico (vv. 975, 982), suo il sogno che la spinge ad invocare le coreute come "concittadine" (v. 1227). Quella che si prospetta è, però, un'inedita forma di convivenza, un disegno di comunità che reinventa il futuro perché scardina le regole di un passato con cui non si è rifiutato il confronto e di cui si sono districati i nodi; in un ultimo rigurgito di memoria, Elettra ricorda la proprie pene (vv. 1245-1248), affinché da esse tragga la forza necessaria all'azione decisiva senza distogliere lo sguardo dal fatto che, distruggendo la madre, sarà una parte di sé che andrà a sopprimere. Ella si fa, così, promotrice di una trasformazione culturale che inaugura un diverso modo d'intendere le relazioni; che basa la reciproca appartenenza su un sentire condiviso, facendo della philia un sinonimo di "affinità" e "concordia"; che non riconosce nella nascita dagli stessi corpi o dalla stessa terra un fattore sufficiente al costituirsi di una collettività e che, di fronte al fallimento storico di una consanguineità ormai spogliata di ogni valore reale (vv. 1154, 1194, 1410-1413), ricorre alla syngeneia come ad un modello (vv. 1124-1125, 1202), fondamento di una parentela simbolica (vv. 1130, 1146-1147, 1220, 1232-1233, 1361, 1429) cui abbia accesso solo chi dia prova di un'effettiva comunanza d'intenti (vv. 1301, 1346, 1363, 1484).
Quali che fossero le motivazioni, l'Atene del tempo non seppe (o non volle) recepire il messaggio che Sofocle tentava disperatamente di rivolgerle; quando un decennio più tardi i sopravvissuti alla stasis si trovarono a decidere del loro futuro, curiosamente si mossero in una direzione contraria a quella suggerita dal poeta; se nello stile il celebre decreto del me mnesikakein ricalcava le formule ricorrenti dell'eloquio di Elettra, nella sostanza esso imponeva di non serbare memoria del male patito in relazione al passato contro nessuno che non fosse dei Trenta, dei Dieci, degli Undici e degli ex-magistrati del Pireo; neppure contro questi, poi, se avessero presentato il rendiconto delle loro azioni.
Quello del 403 a.C. non fu il primo provvedimento simile ad essere approvato dalla città, ma fu il primo ad essere investito di un'esemplarità tale per cui le fonti antiche lo consegnarono alla storia come l'archetipo di ogni atto di amnistia; traducendosi nella rinuncia a intentare azioni giudiziarie ai danni degli Ateniesi che si fossero macchiati di un crimine, esso si riproponeva d'impedire all'odio di propagarsi, vietando il perseguimento della vendetta (foss'anche nei termini previsti dalla legge) e tentando di rispondere all'esigenza di ricomporre un tessuto sociale lacerato dal conflitto.
D'altra parte, il ricorso a questa "strategia della riconciliazione" lasciò intuire fin da subito le sue debolezze. Non solo essa legittimava l'impunità dei singoli responsabili, negando alle vittime il riconoscimento delle loro sofferenze (presupposti necessari ad una solida e durevole riappacificazione); cosa assai più grave, essa proibiva alla popolazione di comprendere la reale portata di quanto era accaduto. Così, quella violenza che la città rifiutava come estranea, riversandola su un gruppo circoscritto di "capri espiatori” e assolvendo da ogni colpa gli altri cittadini idealmente ricostituiti nella loro indivisa e indivisibile unità; quella violenza che essa credeva di poter esorcizzare, ripristinando le condizioni politiche antecedenti la stasis (che nella sua versione dei fatti erano state temporaneamente interrotte da un isolato attentato di natura oligarchica alle istituzioni democratiche); ebbene, quella stessa violenza tornava a segnare l'agire di una polis ormai alla deriva, che nell'imposizione istituzionale del silenzio cercava un alleato all'incapacità di guardarsi per quella che era davvero, di una democrazia restaurata che si dichiarava "moderata" e intanto non si faceva scrupolo di mandare a morte senza regolare processo un cittadino che aveva osato rivangare il passato, nell'illusione che bastasse congelarne il ricordo per annullarne le ripercussioni sul presente e che fosse possibile far tacere il grido di una memoria che avrebbe continuato ad essere minacciosa, fino a quando non si avesse avuto il coraggio di affrontarla.