La cultura liquida moderna non ha persone da coltivare ma solo clienti da sedurre.
(Zygmunt Bauman, Cose che abbiamo in comune. 44 lettere dal mondo liquido)
Ah Cecì: beccati sta pinguinataa!
(V. Gassman, Il Gaucho, 1964)
Ciascuno potrà astrattamente dire ciò che vuole, senza limiti, ma concretamente non avrà più alcunché da dire, perché l’ortodossia del pensiero unico e della neolingua avranno colonizzato integralmente le coscienze.
(Diego Fusaro, Pensare altrimenti)
Il cinema anticipa l’analisi dei tempi. Solo al cinema è dato talvolta, in tempi di oppressione pseudodemocratica, di dire semplicemente il vero, ridendo, graffiando, alludendo. È il caso emblematico di due film di Dino Risi. Agrodolci, semi-surreali, penetranti nell’amara intelligenza di una coerenza lancinante. Il Gaucho (1964) con Vittorio Gassman e Nino Manfredi; e Mordi e Fuggi (1973) con Marcello Mastroianni e Carol André, l’ineffabile Marianna di Sandokan.
Entrambi quasi in sordina nella plateale esibizione di meccanismi mediatici-linguistici di alienazione/esclusione rivelano la radice oppressiva di quella che oggi si chiama “società fluida”, e allora veniva battezzata “società dello spettacolo”, secondo la grammatica situazionistica di Guy Debord. Il Gaucho ci mostra una narrazione pienamente inconcludente e monodimensionale dove i protagonisti, una banda di attori e produttori mediocri di Roma che vanno a un festival del cinema in Argentina come andassero in gita, sembrano vivacchiare in una soglia fluida tra l’Italia del consumo di massa e dei ruoli recitati e un'Argentina improvvisata, vuota, grigia, inconsistente, specchio ritardato di un Italia arrivista e cinica. Evadono dai ruoli professionali, dagli schemi borghesi, duplicandoli e moltiplicandoli in una stanca e pigra movida argentina. Come evaderanno dal saccheggio esistenziale del momento rientrando in Italia, vuoti e semanticamente afasici come prima di giungervi.
Gassman si arrabatta tra confuso affarismo e tradimenti portati avanti senza convinzione, come un dovere sociale. Suo degno contraltare un gustoso miliardario italiano che affligge tutti gli italiani che giungono nella sua nuova patria con la sua folkloristica nostalgia dell’Italia. Gassman incorpora la nuova società del nichilismo di massa. Amedeo Nazzari manifesta l’altro lato complementare dello sradicamento: il luogo comune, la convenzione sentimentale, lo snob vittimistico. Entrambi recitano quasi ritualmente e professionalmente lo svuotamento animico e identitario imposto dal Sistema acefalo/olistico della società massificata che svuota ogni senso e ogni valenza. Amedeo irrita Gassman che lo sopporta a fatica e quasi si vendica contro di lui tramite una vacua avventura con sua moglie, priva di ogni brivido (assente ogni senso di trasgressione) in quanto il “luogo comune”, la cartolina del sentimento, il simulacro rigido e ripetitivo della nostalgia vengono derisi dalla purezza del “totalmente vuoto” dello snobismo di massa.
Il povero Manfredi è il terzo aspetto dell’assenza di radici. Mentre Amedeo è l’emigrato di successo ma privo di collocazione etica-spirituale, comunque alienato cronico, Manfredi è il polo dialettico opposto dell’emigrato sfortunato, fallito, ma non nostalgico. Gassman, amico di giovinezza, cercherà di trovargli il “posto fisso” tra i vip della sua armata brancaleone delle notti mondane argentino-italiane, ma sarà guizzo vano, neppure descritto nel suo esito. Manfredi recita un fallimento esistenziale ineludibile e che non presenta riscattabilità sociale. La recita della “società dello spettacolo”, nonostante la sua apparente inclusività e tolleranza, rivela la sua totale impermeabilità e distacco dalla realtà dei rapporti umani e affettivi. Il “lavoro” è volgare argomento al tavolo dei “turisti della vita” il cui affarismo è come una ruota che gira a vuoto in una autoreferenzialità idolica. Anche il “gaucho” quale figura sociale appare svuotato di ogni senso: resta un immagine parodistica, un costume folkloristico disincarnato da indossare per pochi minuti per una fotografia, in quanto anche la vita agricola è ora solo spettacolo di corte, per ospiti effimeri, e ogni tipo di realtà e di produzione è ora divenuto una macchina industriale anonima che procede da sola, indifferente e cieca anche nei confronti del suo titolare, il miliardario italo-argentino, che pensa solo alle feste e ad accogliere i vip italiani che atterrano a Buenos Aires.
Bellissima la micro-scena situazionistica di Gassman che si avvicina all’oceano per fare un bagno in compagnia della sua amica/attrice/semiamante (cessata ogni identità, anche nel mero esserci) e, trovato un pinguino morto sul bagnasciuga, lo prende e gridando lo lancia verso il resto della compagnia: "beccati sta pinguinata!" L’enfasi goliardica che canta l’accaduto fine a se stesso. Irrelato. La nuova divinità del non sense. Il vitalismo solo a livello pre-primitivo in un’adolescenza dilatata senza tempo. Come bellissima la scena in cui Gassman, in un locale notturno, inizia a flirtare con una bella ragazza che scopre di essere “di Voghera” e non argentina. Insieme, a tempo, si dicono una domanda convenzionale: "ti piace l’Argentina?" Ritorna lo spauracchio del “luogo comune”, unica democrazia affettiva rimasta, e Gassman sfugge all’eccesso dello smascheramento troppo evidente dell’assenza di senso con l’unica dignità sopravvissuta: quella del variare sempre l’incessante danza/recita dei “tempi nuovi”. In realtà non c’è alcuna differenza tra Italia e Argentina: sequenze dello stesso film, frame del medesimo carnevale monotono e reificante che possiamo ridurre simbolicamente al clacson bitonale, che ritroviamo ossessivamente anche nel celebre Sorpasso. L’efficacia del format dell’annichilimento sta proprio nell’incessante modulazione del medesimo ritmo.
In Mordi e Fuggi invece la poetica del disincanto è più evidente, più ragionata, lucidamente teorizzata, ma non meno suggestiva e graffiante. Due classi esistenziali solo apparentemente opposte ma in realtà similissime nel loro inconcludente e nichilista “saccheggio dell’effimero”: Mastroianni e Carol in una pigra e vuota avventuretta da gita giornaliera e un gruppo di criminali/rivoluzionari che vivono solo nell’istante, privi di ogni vera idealità. Il messaggio è deflagrante: la società di massa si fonda sulla dialettica di falsi opposti: evasione e conflitto, consumo e autocelebrazione, fuga verso il vuoto e narrazione mediatica di qualsiasi accadimento. Stupenda l’immagine del corteo di macchine della polizia che insegue senza convinzione la Mercedes dei sequestratori mentre ai lati dell’autostrada e negli autogrill folle pittoresche di spettatori-commentatori celebrano i riti del circo televisivo. La Mercedes viene subito seguita da una felliniana vettura pubblicitaria di una bibita con tanto di velina ante litteram sorridente e pubblicizzante. Anche il commissario che metterà fine a colpi di mitra alla doppia recita degli rivoluzionari da operetta e del miliardario ridotto a merce appare un volto recitante un canovaccio, pur degno di una comparsata pasoliniana. La colpa dei banditi non è aver sequestrato ma aver interrotto l’avventura sexy di un pomeriggio dello sfaccendato industriale. Non ci sono vittime né eroi ma sono consumatori di relazioni di scambio elementari, primitive, senza sviluppo né radice.
Bellissima la scena quando il capo bandito si diverte complice con il sequestrato Mastroianni nell’ascoltare vecchie canzoni anni '30-4'0, salvo poi arrabbiarsi quando sente Bombolo. Allusione evidente a prese in giro infantili. La rivoluzione perde ogni etica e valore e viene ridotta a “consumismo alternativo”, mosso in questo caso dalla rabbia latente di un bulimico disadattato, che come rivoluzionario vive anch’egli a singhiozzo, come il miliardario, tra una rapina e un pranzo in autogrill, la sua autistica “vita come gita”, fino allo sfinimento e alla consumazione psicobiologica della persona tutta involta nella “forma merce”.