La mappa è sempre il territorio, perché non abbiamo nient’altro che essa.
(Heinz Von Foerster, Congresso del Mental Research Institute, 1983)
I criteri per stabilire se qualcosa è il falso di un originale coincidono con i criteri per stabilire se l’originale è autentico. Verità e falsità, autentico e falso, identità e differenza, si definiscono circolarmente a vicenda.
(Umberto Eco, I limiti dell’interpretazione)
Vero? Falso? Autentico? Originale? Non sempre questi termini si rivelano così risolutivi e di facile uso, specialmente nel campo dell’arte. Ogni disciplina è sia pratica che conoscitiva e il dato informativo da solo resta muto. La differenza la fa l’interpretazione. La medicina è l’interpretazione medica. Il diritto è l’interpretazione nei processi, nei contratti, nell’esercizio dei pubblici poteri. La chimica è l’interpretazione di legami e reazioni tra molecole. L’arte è l’interpretazione dell’arte. Ogni azione umana consapevole è “interpretazione in azione”.
Quale interpretazione? Chi custodisce il custode? Ogni sistema/disciplina presenta un “dentro” il sistema e un “fuori” il sistema. E questo vale anche per l’interpretazione/attribuzione artistica di un’opera. I confini della materia, tra aspetti tecnici e aspetti logici/extra-tecnici sono anch’essi parte della questione “interpretazione”. Nessun “sistema logico-pratico” può autofondarsi, quindi tutte le discipline prima o poi rinviano a elementi, fattori, dimensioni extra-sistema per la risoluzione di determinate questioni. Lo dimostra l’esistenza stessa del Diritto: giudici, avvocati, pubblici ministeri si trovano, non a torto ma per una sorta di necessità logico-sociale-linguistica, a dover valutare perizie, testimonianze, documenti di ogni tipo di esperto (ingegneri, chirurghi, geologi, esperti di arte, ecc.). Il giurista è sempre, e non solo il giudice, “esperto degli esperti”, cioè colui che valuta la coerenza interna, la professionalità, la motivazione di fenomeni, dati, racconti di “altri mondi”, anche ad alto contenuto tecnico, come i mondi dell’arte. Il giurista quale giudice della professionalità altrui. La differenza è che mentre nessun operatore del diritto si sognerebbe di confondere “verità istruttoria-processuale” con la “verità storica” (spesso inconoscibile), non troviamo lo stesso distacco ermeneutico nella critica d’arte tra “verità interpretativa” e “verità storica”.
Il vero tema in dibattito in ogni conflitto ermeneutico è sempre lo stesso e non è mai tecnico ma va individuato nel controllo della “Persuasione”. Chi vince la lotta della Persuasione, quindi della credibilità, della sostenibilità, della coerenza, dell’efficacia narrativo-argomentativa “vince la guerra” dell’interpretazione e, quindi, muta il reale. Lo dimostra nella prassi l’elevato livello di pluralità di correnti di pensiero, scuole interpretative, approcci cognitivi, discussione sociale, conflitto tra esperti, da sempre esistente nel campo dell’attribuzione artistica. Umberto Eco ha giocato con i paradossi delle antinomie vero/falso, autentico/originale, ricordandoci come la formazione dell’Identità sia un processo dialettico e circolare, quasi hegeliano, dove non sempre l’originale è autentico e non sempre il falso non è originale. Ricordare queste riflessioni diEco è utile per sottolineare l’importanza che l’approccio ermeneutico oltrepassi i confini settoriali, tanto più quanto siamo in presenza di casi di aperto “conflitto tra esperti”, come il caso del Salvator mundi, dove Pedretti si scaglia contro Marani. Il rischio del condizionamento eccessivo di pressioni esterne sulla valutazione dell’esperto cresce esponenzialmente quando l’esperto resta chiuso nella delimitazione tecnica della propria disciplina e non si apre a una culturalità ermeneutica più ampia.
È la perenne “questione del metodo”, sorta già secoli fa, con Cartesio e Francesco Bacone, nel profondo di una ricerca filosofica già millenaria, ma ancora poco consapevole e scarsamente teorizzata nel settore della storia dell’arte e della critica artistica. Eco ragiona pensando più a documenti letterari/storici che ad opere d’arte, ma quasi tutta la sua analisi è traducibile nell’arte. Non è l’opera d’arte un documento storico? Non è l’opera d’arte un racconto per “lingua visivo-immaginale”? Da Eco possiamo trarre due approcci ermeneutici fertili: a) l’opera quale segno b) il confronto tra “struttura semantica” e schema iconologico. Il primo aspetto emerge ad esempio in relazione al concetto di “contraffazione”, orientando la definizione dell’“autenticità” di un’opera nel suo mostrarsi “segno delle sue proprie origini”. L’autenticità quale “non contraffazione” (assenza di dolo nel suo formarsi) si apprezza in positivo quindi nella coerenza tra l’opera e il proprio processo di produzione. Più ampiamente tutto ciò emerge nel processo attributivo nella valutazione del rapporto tra opera e suo possibile contesto, nel senso originario di “tessuto” organico, relazionale, portante. L’attribuzione quale “contestualizzazione”. La problematicità pratica deriva dall’amplissima fenomenologia disciplinare che può emergere in questo processo ricostruttivo della relazioni dell’opera con il suo tempo, secondo aspetti sociali, iconografici, iconologici, tematici, tecnici, autoriali, stilistici, biografici, materiali.
E torniamo al problema del metodo che qui inizia ad assumere la connotazione di un problema di Identità, nel senso che posso identificare un’opera se prima risolvo la questione dell’identità e della rilevanza dei suoi aspetti contestualizzabili. Una determinata opera è unica, o singolare, o di valore/pregio per quali suoi aspetti? Prima di chiedersi l’identità dell’autore l'interprete dovrebbe essere interpellato sull’identità dell’opera. Più si moltiplicano i criteri di valutazione utilizzabili più assume peso la questione del metodo e più essa diviene formulabile con questa domanda: qual è il criterio dei criteri? O meglio: quale peso relativo dare a quali criteri valutativi tra i molti attivabili? Altra dimostrazione di come ogni disciplina tecnica non possa che trascendersi se non vuole avvilupparsi in modo autoreferenziale fino a forme di autismo cognitivo, di settarismo ideologico.
La critica d’arte ha bisogno della cultura ermeneutica come di un orizzonte mentale più ampio e dialetticamente stimolante. Se la critica d’arte non sa raccontarsi al di fuori del proprio mondo, allora non è scienza. Ogni scienza/disciplina è tale proprio perché presenta due componenti strutturali indissolubili: un linguaggio tecnico proprio e una più ampia cultura, che, in quanto tale, può e vuole conversare con altre forme di cultura. Il processo attributivo, come ogni processo ermeneutico che deve avere una conclusione pratica (lo vuole la società), come il processo giurisdizionale, si trova sottoposto a un duplice stress: quello sul problema del metodo e quello gnoseologico sull’assenza del “tertium comparationis”. Non esiste un “qualcosa” di autonomo e di indipendente da cui far derivare il giudizio di verità e di falsità, di identità e di alienità. Il processo attributivo è un processo dialettico, aperto, a scopo persuasivo e, similmente al processo giurisdizionale, si tratta di un racconto ricostruttivo simbolico, storico in senso oggettivo solo per la provenienza dal passato della res oggetto del processo stesso, il quale è fatto contemporaneo, attuale, futuribile. La “verità attributiva” cioè è sempre distinguibile dalla verità storica quale “verità allo stato degli atti”, di tipo probabilistico, ancor di più nella critica d’arte, dove all’irrimediabile dispersione e cesura vitale del trascorrere storico si aggiunge l’evolversi significativo della “storia dell’interpretazione artistica”, della “storia della critica d’arte”, entrambe all’interno di una “storia della cultura e del costume”.
Di storico nella critica d’arte c’è soprattutto la mutabilità diacronica dei propri risultati! L’opera è un documento muto, a cui occorre ridare voce. Se devo confrontare un’opera di autore sconosciuto con l’opera di Leonardo per chiedermi se l’opera in questione sia anch’essa di Leonardo, si pongono subito alcune grandi questioni ermeneutiche, spesso eluse. Come posso confrontare x con Leonardo se prima non identifico Leonardo, cioè se non preciso l’Identità leonardiana? “Come operi Leonardo pittore di temi religiosi”, è tema ermeneutico immenso, e non può essere ridotto a dettagli tecnici. E non di facile soluzione perché ogni studioso ha suo approccio culturale condizionato anche da proprie convinzioni extradisciplinari e pre-scientifiche. Altro problema: il numero scarso delle opere pittoriche di Leonardo, la loro grande eterogeneità di stili, tecniche, materiali.
È vero al contrario che abbiamo invece una gran massa di disegni di Leonardo, ma l’opera in analisi potrebbe non avere un disegno sottostante oppure il suo autore potrebbe aver dipinto sopra un disegno di Leonardo, o potrebbe aver utilizzato pigmenti sperimentali che ha conosciuto visitando la bottega di Leonardo o che ha appreso da suoi discepoli. Il dato pratico non è quasi mai risolutivo in quanto dato storico, relitto irrelato rispetto a molteplici possibili scenari. È la stessa fenomenologia storico-pratica amplissima a richiedere una “scelta di campo” valoriale, ermeneutica, e tale scelta non può essere operata deduttivamente. È il paradosso di ogni interpretazione quale “anticipazione” di tesi già formate, rispetto alle quali i dati disponibili sono chiamati, postumi, a suffragio.
Seconda questione di metodo: si deve delineare l’Identità dell’opera x, cioè i suoi tratti essenziali, individualizzanti, ciò che la rende unica o, almeno, “opera di valore”. Si tratta del fondamento di ogni confronto: la chiarezza dell’identità delle realtà confrontate. Ecco che giunge utile l’intuizione di Eco sulla valutazione di valore dell’opera quale confronto tra “schema iconologico” e “struttura semantica”. Come appare decisiva l’analisi della “struttura semantica” dell’opera, cioè l’analisi del suo “soggetto narrativo”, delle tematiche di cui è figura e rappresentazione. Esemplifichiamo riguardo al Salvator mundi recentemente attribuito a Leonardo, mentre prima era considerato di Marco d’Oggiono o di Boltraffio, o di altri autori leonardeschi. Il cuore della questione va centrato nell’analisi della specificità dell’opera nella ricezione del modello iconografico, la quale va confrontata poi con l’uso tipico degli elementi iconografici in Leonardo.
Il Salvator mundi infatti è un modello iconografico conosciuto, canonico (Cristo a mezzobusto, frontale, che benedice con la mano destra, mentre con la sinistra regge il globo del mondo) di origine bizantina, poi diffusosi con successo nell’area fiamminga, ma conosciuto pure in Italia da almeno due secoli prima del periodo leonardiano. L’iconografia quindi di per sé non ci aiuta e non ci dice nulla. L’attenzione va concentrata sull’“uso iconologico”dell’iconografia. Va compiuto un “confronto di scenario linguistico” tra come Leonardo usa i modelli iconografici religiosi, e in genere i singoli elementi iconografici, e come vengono utilizzati/variati nell’opera in questione. Non si deve uscire dal linguaggio usato: l’opera è opera di arte sacra.
Altro elemento di metodo, concettualmente quasi banale, ma spesso purtroppo eluso. Il critico d’arte sfugge spesso a questa essenziale domanda iniziale, mai inutile: che linguaggio si sta usando nell’opera che si sta analizzando? Risolta questa pregiudiziale domanda si possono porre le altre, del tipo: a) c’è un modello di riferimento? b) che varianze introduce rispetto al modello dato? L’opera in questione innova fortemente il modello dato presentandoci un Gesù che va di molto oltre il “tipo” del “Cristo Salvatore benedicente”. Abbiamo un Cristo non tanto onnipotente ma colto invece nella sua onniscienza, come indica la resa trasparente, vitrea (originalissima, unica) del globo del cosmo, e abbiamo un Gesù dal volto estremamente semitico, fisiognomico, allusivo. La veste con la doppia fascia incrociata, come le vesti del Sommo Sacerdote del Tempio di Gerusalemme, congiunta alla resa del volto spostano l’accento sugli aspetti sacrificali e israelitici del Salvatore, non su quelli soteriologici indicati dal modello convenzionale di cui è comunque “token”.
L’autore di questo Salvator mundi utilizza il canone come occasione e pretesto per dire e fare altro. Lo dimostra l’innovativo fondo scuro, ancora assai raro a fine quattrocento per i soggetti religiosi, aspetto comunque di provenienza nordica, e i cui primi esempi assoluti possono essere trovati nell’Adorazione dei pastori di Van Der Goes, nella Natività di Geertgen Tot Sint Jans, mentre in Italia lo troviamo nella Madonna greca di Giovanni Bellini, altro “papabile” autore d’eccellenza a livello di “teoria/scelta di campo attributiva” per quest’opera, anche in considerazione del fatto che Bellini era autore da tutti ammirato, Leonardo compreso, e quindi poteva anche essere un “modello imitativo” per la stessa bottega di Leonardo. Ricordiamo che si tratta di un “fondo scuro” del tutto extra-narrativo, quindi di un’ambientazione simbolicamente notturna, al di fuori del soggetto narrativo. E Leonardo padroneggia sì i linguaggi simbolici ma lo fa in tono dimesso, sottotraccia, “silenzioso”, quasi subliminale, mai in modo spettacolarizzato come accade in quest’opera, e mai al di fuori del soggetto narrativo al quale si dimostra sempre fedelissimo.
Altri autori possibili: il Bramante, da accogliere quale ipotesi astratta proprio perché pittoricamente quasi a-documentale! Singolarità per singolarità! Come usa l’iconografia invece Leonardo? La rispetta sempre. Leonardo non è il genio nella riformulazione dell’iconografia ma si rivela il genio nell’espressività dentro i codici iconografici del tempo che a suo modo (pur originalissimo) conferma. Leonardo innova (l’unico, il primo) in alcuni precisi aspetti: il mutamento della struttura scenica, che viene potentemente dinamicizzata, nella novità degli elementi che accosta (es: paesaggio/soggetto), nell’espressività dei volti e del paesaggio tramite lo “sfumato”, in una processo di interiorizzazione/spiritualizzazione del gesto e del volto. Il suo sostanziale rispetto dell’iconografica, pure trapiantata in un differente logica iconologica e in una ricontestualizzazione scenica tutta sua, lo troviamo confermato in centinaia di esempi, tra cui: la croce doppia nella Madonna dei fusi, il coltello e il colore delle vesti nel Pietro del Cenacolo, il gesto tipico di Giovanni Battista, il capo inclinato di Maria, la penitenzialità di San Girolamo, la scena dei Re Magi adoranti, il rapporto tra Gesù e San Giovanni Battista, le posture dell’Annunciazione.
Questo tipo di confronto allontana quindi l’Identità di Leonardo pittore sacro con l’Identità dell’opera in questione. Vanno sempre considerati scenari altri, come ad esempio la possibilità che l’opera x sia stata realizzata da un autore di alto livello che abbia conosciuto bene l’opera di Leonardo. Perché non pensare a Dürer? Il nostro Salvator mundi non si connota per l’elevato tasso di originalità? Non è Dürer pittore che ammira Leonardo (riproduce l’emblema dell’Accademia di Leonardo in un suo disegno) e nel contempo pittore di grande originalità e versatilità? Non emerge una “nordicità” dell’opera nello sguardo così penetrante, nel radicale chiaroscuro e nel globo trasparente come vetro? Non ricorre già in due opere di Dürer sia l’originalissimo globo imperiale trasparente quanto la veste incrociata (in suo autoritratto)?
L’attribuzione a Leonardo potrebbe essere fondata su di un falsato sillogismo logico: 1) il modello del Salvator mundi era conosciuto nella cerchia dei discepoli di Leonardo (ne dipinge uno assai simile Marco d’Oggiono) 2) l’opera in questione è qualitativamente superiore a qualsiasi leonardesco e differisce dai loro stili 3) ergo: l’opera in questione non può essere che di Leonardo. Il presupposto falsato interno a questo sillogismo è dato dalla tesi ideologica che l’opera debba essere solo o di Leonardo o di un suo discepolo, mentre potrebbe essere anche di altri autori, magari non ancora conosciuti, oppure di Bramante, di cui abbiamo quasi nulla a livello pittorico, quindi sarebbe autore pittorico teoricamente probabile per la singolarità dell’opera e dello stile.
Per prudenza si sarebbe dovuto introdurre il concetto del “Maestro del Salvator mundi”, quale identità autoriale netta ma non ancora definita a livello attributivo. Cosa manca infine a una buona analisi, metodica e completa? La definizione di un profilo identitario dell’autore “leonardesco”. Accenno a due utili elementi che ritengo ricorrenti nella “tipologia” (esistenziale prima che artistica) dei discepoli/amici/imitatori di Leonardo “di prima generazione”: 1) l’assenza di unità organica dell’opera 2) l’eccesso retorico. Il discepolo di Leonardo non vuole fare un falso ma un omaggio d’affetto al maestro. Per questo abbiamo opere con volti o paesaggi “molto leonardiani” e il resto dell’opera più anonimo e di livello tecnico inferiore.
II Salvator mundi discusso presenta l’elemento n°1 - discontinuità rispetto all’opera di Leonardo. Poco probabile che Leonardo abbia lasciato incompiuta una sua opera oppure che abbia tollerato come a lui attribuibile un’opera così discontinua tra l’elevato livello del volto, la più mediocre resa del vestito e il posticcio e maldestro manto della spalla sinistra di Gesù. Non solo: abbiamo qui un elemento tipicamente imitativo, e non “di omaggio” a Leonardo, e lo troviamo nel risvolto serpentino della tunica azzurra sotto il polso destro. Il movimento ad esse delle pieghe del vestito è cifra tipica di Leonardo (conferisce fluidità, dinamismo e senso del “naturale”) ma qui appare in una resa poco credibile a livello anatomico-fisico, aspetto a cui era così attento Leonardo, in quanto la manica dovrebbe scendere più pesantemente e non avvilupparsi antinaturalmente. Che sia Dürer o Bellini o Bramante o altri autori o un autore non ancora identificabile ad oggi poco importa e nuovi verdetti verranno dal futuro. Importante è recuperare il senso del metodo e ricostruire “una cultura dell’interpretazione” altrimenti il conflitto attributivo stenterà a sopraelevarsi dal conflitto economico.