Un ritorno atteso e ovviamente caratterizzato da curiosità e sorprese, da effetti scenografici, misteri e percorsi narrativi. È il ritorno di Damien Hirst uno dei più importanti e discussi artisti del panorama internazionale, in una doppia mostra a Venezia in corso nelle bellissime sale di Palazzo Grassi e a Punta della Dogana.
Nato a Bristol nel 1965 – cresciuto a Leeds e dal 1986 al 1989 formatosi alle Belle Arti al Goldsmith College di Londra - dalla fine degli anni Ottanta Damien Hirst ha realizzato importanti mostre costituite da installazioni, sculture, dipinti e disegni, che hanno investito le complesse relazioni tra arte, bellezza, religione, scienza, vita e morte. I suoi lavori – tra cui l'iconico squalo in formaldeide The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living (1991) e For the Love of God (2007), calco in platino di un teschio tempestato di 8.601 purissimi diamanti – lo collocano nella top ten degli artisti internazionali, sempre pronto a sfidare certezze e complessità del mondo contemporaneo. Tra le oltre 90 mostre personali sull'artista nel mondo e le più di 300 mostre collettive, giova ricordare quelle alla Tate Modern di Londra dove fu presentata una grande retrospettiva, al Qatar Museums Authority, ad ALRIWAQ Doha (2013-2014), a Palazzo Vecchio a Firenze (2010), al Rijksmuseum, Amsterdam (2008), passando per l'Astrup Fearnley Museet fur Moderne Kunst di Oslo (2005) e il Museo Archeologico Nazionale di Napoli (2004). Nel 1995 ha vinto il Turner Prize.
E a Venezia è di scena l'imponente rassegna Treasures from the Wreck of the Unbelievable, a cura di Elena Geuna, che si snoda tra Punta della Dogana e Palazzo Grassi, in una suggestiva narrazione attorno ai profondi abissi del mare, alla ricerca di oggetti e opere d'arte, e di storie. Unbelievable - Apistos, nome d'origine in greco antico ("Incredibile"), è il relitto di una nave naufragata al largo della costa orientale in Africa con un carico di preziosi e di sculture, e il cui ritrovamento ha avallato la leggenda di Cif Amotan II, un liberto di Antiochia (città della Turchia nordoccidentale) vissuto tra la metà del I secolo e l'inizio del II secolo d.C. Secondo la leggenda risale al 2008 il recupero del tesoro sommerso sul fondo dell'Oceano Indiano che venne riscoperto al largo della costa orientale dell'Africa, con il suo carico di oggetti portati fantasticamente alla luce quali testimonianze dell'epoca, delle influenze e delle interazioni tra culture diverse allora in contatto. L'Apistos è dunque una pietra miliare culturale della massima importanza, ed è l'oggetto concettuale attorno a cui ruota la mostra. La rassegna veneziana, frutto di un lavoro durato dieci anni, rappresenta, anche, il culmine dello stretto rapporto tra l’artista e la Collezione Pinault, nato diversi anni fa.
Una rassegna costituita da 200 opere si snoda lungo le due sedi in cui ritroviamo oggetti e sculture dai grandi e sconvolgenti effetti scenografici, o dalle visioni più intime e riservate, e che stanno a significare, per molti versi, anche la stessa poetica che governa questo lavoro e che può essere racchiusa nelle stesse parole di Hirst, ovvero: “l'impossibilità per l'uomo di concepire l'assurdità della morte”. E, forse, del resto, non è caso se attorno alle grandi e monumentali sculture, basti pensare a Demon with Bowl - un ciclope alto 18 metri – che sovrasta l'atrio di Palazzo Grassi, in apertura alla mostra - aleggi anche un senso del macabro, una visione drammatica oltre che neobarocca fondata su elementi legati all'eccesso, a un rigonfiamento, e a presenze fantastiche in grado di suscitare interesse e curiosità, piacere e impressione.
Sono così gli scorpioni dorati, i corni di unicorno, teschi, gli scudi di Achille, le teste di Medusa, monete dorate, armi antiche, reperti marini e gioielli, i dragoni e i Laooconti rivisitati da Hirst, quasi nel modello di neocavalieri alla stregua di un San Giorgio con il drago. L'impronta neobarocca vive in queste opere di Hirst come una sorta di rinvio e di rimando non solo a un altrove e a una necessità del tempo, di una storia e dei significati epici che ne caratterizzano le forme, quanto al senso di un recupero visivo oggettuale, di un racconto storico emozionale, che diventa la rappresentazione di un'idea drammatica o meglio di una drammaturgia dentro la quale aleggia anche un senso del macabro, quel senso della morte presente in numerose opere, come testimoniano i teschi e le tombe delle due donne distese in marmo bianco e nero, con chiari riferimenti alla scultura funeraria del Due e Trecento. Ed è ancora la grande scenografia a imporsi dentro le quinte espositive come sistema di una narrazione entro cui recuperare caratteri e segni di un altro tempo da far rivivere, qui e ora, lontano da una storia, ma tutto dentro i desideri dell'uomo.