Ho diciassette anni, sono nero di capelli, scuro di pelle e mi piaccio. Per forza, mi vedo da sempre e quindi è normale che trovi bella questa mia somiglianza con un cavallo, le orecchie lunghe e sistemate un po’ troppo in alto, il viso spinto in avanti e questo bel sorriso con i denti grandi incorniciati da labbra carnose. Con la pubertà mi sono spuntati peli ispidi e duri sul mento che più taglio e più crescono ma, per fortuna, senza moltiplicarsi troppo, in compenso è cresciuta una peluria bionda e morbida che ha finito per esaltare la loro rigidità. Contro luce il mio mento sembra il sole con i suoi raggi.
Con questa faccia so che è difficile trovare una ragazza, pensare che là sotto ho un arnese che, quello sì ha un bel senso equino, ma son costretto a tenerlo tutto per me e al momento lo maneggio con un certo gusto. In questo momento, sono seduto in un bar, al sole e sto guardando una gran bella signora che sta venendo verso di me con un ancheggiare mica male. Angela Domenichini, vedova di un imprenditore edile, si sente ancora giovane nonostante stia sfiorando i cinquanta, donna procace e con una chioma di capelli neri come la fuliggine, ama truccarsi come Moira Orfei, la divina del circo forse perché, come lei, ha occhi piccoli e porcini che grazie al trucco sembrano gli occhi di una regina d’Egitto. La sua passione sono i tatuaggi, li ha disseminati su tutto il corpo.
Luca Marrucu, il suo factotum, è sardo, mingherlino e nervoso, fino a un certo punto è stato per lei uno splendido amante poi si è innamorato e quindi è stata costretta a farlo diventare una specie di maggiordomo. «Un po’ mi spiace» ha detto a un’amica «ma non mi va mica di avere un amante fisso, che noia». Un giorno per chiarire ulteriormente le cose si è portata a casa un antiquario, si fa per dire, un tipo azzimato con la parrucca giallognola, si era accorta subito del posticcio ma in fondo questo vezzo la divertiva e lui pure, aveva la battuta pronta e un occhio strabico che la guardava sempre, anche quando l’altro se ne andava per conto suo e a lei era parso un segno del destino, l’occhio vagante di dio, va' a sapere. Fatto sta che da quella notte l’antiquario ha cominciato a dormire nel suo letto. Luca si lamentava forte e la trattava male ma poi non avendo dove andare ha buttato giù il boccone e ha iniziato a occuparsi del giardino pur di non vedere quei due baciarsi sul divano.
I tatuaggi intanto aumentavano ma a lui non era più dato di scoprirli. Ogni tatuaggio un ricordo, c’era anche il suo, la Sardegna tratteggiata con una linea rossa alta una decina di centimetri proprio dietro la spalla sinistra, giusto sotto l’America del sud e accanto a un pappagallo blu giallo e rosso il cui becco sfiorava il petalo di un fiore di pesco. In questo momento stava appunto tornando dallo studio di Lollo, il tatuatore che poche ore prima, quando la vide entrare, le sorrise subito e la fece accomodare. Lei con un sorrisetto complice tirò fuori dalla borsetta una fotografia che lui prese tra le dita con delicatezza. Vi si vedeva un comò, probabilmente del settecento con le gambe curve e i cassetti bombati.
«Voglio questo», disse con decisione e Lollo, ormai abituato alle sue bizzarrie si limitò a sorridere guardando l’immagine.
«Si può fare», le disse poi. «Ma dove lo mettiamo?».
«Sulla schiena per favore, trova tu un posto bello».
«Sotto il ramo di fiori d’arancio non me lo vedo» disse lui, estraendo da un cassetto una foto della schiena tatuata della donna, con l’indice prese a percorrerla, «sotto abbiamo la fascia tribale e non va, qui a destra tra la giraffa e la farfalla ci potrebbe stare ma fa un po’ a pugni con il caimano avvolto tra le spire dell’anaconda poi, Angela, la schiena mi pare un po’ troppo naturalistica, forse il comò potremmo sistemarlo giusto sotto il seno sinistro, sotto il destro abbiamo la giostra, tutto sommato ci può stare».
Intanto lei si era spogliata e guardandosi allo specchio annuì:
«Sì, forse hai ragione anche se tra le tette fino all’ombelico c’è la scritta giapponese, cos’è già che vuol dire?».
«Amore eterno», disse lui.
«È vero l’avevamo fatta subito dopo la morte del mio povero marito, ma sì, vada per la tetta sinistra ma non troppo grande, magari più in basso collegato in qualche modo al mazzo di fiori… non sarebbe bello se lo mettessimo giusto sotto il mazzo? Come se fosse posato sul comò, anzi, fai anche un vaso trasparente intorno ai gambi, che idea, con l’acqua dentro, mi piace, mi piace!». Quel comò col suo vaso di fiori ci stava proprio bene, un po’ più grande di quanto pensava ma era proporzionato al mazzo, non vedeva l’ora di mostrarlo al suo antiquario.
Stava tornando a casa felice come una bimba quando all’improvviso lo vide. Era seduto al tavolino di un bar e lei camminando stava sorridendo alla vita ma lui quel sorriso lo sentì suo e mostrò la dentatura e allora lei si fermò a guardarlo e pur sapendo di non averlo mai visto gli disse:
«Ci conosciamo?» e quel ragazzone con la faccia da cavallo si ritrovò a balbettare qualcosa che a lei parve bellissimo, qualcosa del tipo che bella che sei! Lei, perlomeno aveva capito così e allora per guardarselo bene gli si sedette di fronte. Il ragazzo abbassò subito lo sguardo ma non perse il sorriso e quando il cameriere chiese che cosa volevano ritrovò la voce e disse:
«Quello che vuole la signora».
Lei scoppiò a ridere, gli prese le mani tra le sue dicendogli dolcemente:
«Piacere, Angela».
Il tatuaggio le bruciava un po’ e le fece tornare in mente il suo antiquario.
«Ordina tu, quello che vuoi caro io devo fare una telefonata».
«Pronto, Luca, fammi un favore, avvisalo che non torno a casa stasera anzi fa' in modo che se ne vada, scusami lo so che è un incarico antipatico ma non lo voglio più vedere, per favore, aiutami. No, è finita con lui, non ho voglia di telefonare, no, non gli voglio più parlare, né vederlo. Pensaci tu per favore grazie, un bacio».
«Eccomi, non mi hai detto come ti chiami tesoro».
Ci pensò su un attimo poi le disse:
«Furia».
Così lo chiamavano da anni, il primo era stato suo zio. Stavano guardando una puntata di Furia cavallo del West alla tv quando suo zio, serio serio gli disse: «Ma lo sai che gli somigli proprio? Al cavallo intendo». Da quel momento tutti presero a chiamarlo Furia che poi non gli riuscì mai di capire come fosse stato possibile che d’un tratto tutti insieme avessero deciso di cambiargli il nome. «Di' Furia, ti va di fare una cavalcata?» disse lei alzandosi. La dentatura si mostrò per bene in un sorriso grandissimo e il cameriere uscendo col vassoio li vide già lontani, la mano nella mano.