Sulla band di Robert Fripp si è detto e scritto molto nel corso degli anni, forse addirittura troppo. Tuttavia, all’interno della discografia dei King Crimson prima maniera, quest’album è quello considerato forse come il più debole o il meno ispirato, oppure, per usare una definizione tanto cara ai critici musicali, un album minore. Ma la domanda, legittima, continua ad affiorare alle labbra di ogni ascoltatore dotato di sensibilità e spirito valutativo: cosa fa di questo disco, rispetto alle precedenti e successive fatiche discografiche dei King Crimson, un album meno importante?
La risposta, se si tengono presenti quelle che sono le vere costanti della critica specializzata – un’ignoranza irreversibile unita a una cronica mancanza d’acume – è abbastanza ovvia. Island, fra i lavori partoriti dalla mente di Robert Fripp, è sicuramente il disco a più ridotta percentuale di rock, e questo, unito a una totale estraneità rispetto a qualsiasi altro prodotto dell’industria discografica (ma non avrebbe già dovuto esser tutto chiaro sin dal disco di debutto In the Court of the Crimson King del 1969?) agli occhi di certa critica e di taluni fan, per ottusità indubbiamente affini agli esegeti in questione, ha rappresentato e rappresenta tuttora un malcelato difetto. E così, nonostante la cifra più alta di questo disco sia proprio una sostanziale indifferenza ai coevi sviluppi del progressive inglese e una complessità di temi che sfugge totalmente alle etichette di genere, a causa di questa sua presunta diversità Island non ha mai beneficiato della fama che meritava, rimanendo confinato entro quel limbo dove risiedono i capolavori incompresi, in attesa che qualcuno venga a riconoscer loro i dovuti onori.
L’album si avvale ancora una volta dei testi di Pete Sinfield, ma al fianco di Fripp ci sono il fiatista Mel Collins – stavolta non soltanto collaboratore saltuario – e due nuovi arrivati, Boz Burrel al basso e alla voce e Ian Wallace alla batteria. La scaletta si apre con Formentera Lady, esito estremo di quel raffinato manierismo che sull’esordio discografico caratterizzava canzoni come I talk to the Wind o Moonchild. La prima parte del brano è arricchita dalle splendide melodie del piano – suonato per l’occasione da Keith Tippett – e dalla voce delicata di Boz Burrel, mentre la seconda, grazie anche ai vocalizzi eterei e distanti di un soprano, assume un tono meno romantico e decisamente più mistico, quasi inquietante.
A Sailor’s Tale è uno dei brani più geniali dell’intera carriera di Fripp. Con una straordinaria progressione che non conosce eguali all’interno del panorama musicale contemporaneo, nel volgere di sette minuti si susseguono senza sosta i ritmi serrati e debordanti di Ian Wallace con i lancinanti vagiti free jazz del sax di Mel Collins, le isteriche sovraincisioni chitarristiche di Fripp con la pomposità del synth, in un crescendo spinto oltre i più estremi parossismi sonori. L’inizio di The Letters è tra i più romantici che si possano ascoltare nei dischi dei King Crimson, ma, fedele alla totale e anarchica mancanza di linearità che contraddistingue tutto il disco, la dolcezza dura poco e presto lascia spazio ad altro. La seconda parte del brano, infatti, prima di riallacciarsi alle melodie iniziali, esplode in un folle e lacerante assolo di sassofono in cui fanno da contorno i rintocchi della chitarra trattata.
Ladies of the Road, dove Peter Sinfield trova il modo d’elogiare le groupies, è un bel jazz dinamico, stravolto, sul quale i “quattro ragazzi di Liverpool” vengono dileggiati neppure troppo velatamente. Song of the Gulls è uno strumentale per archi e oboe che prelude chiaramente al pezzo successivo, Island. Ciò che si è detto per l’incipit di Formentera Lady vale anche per il brano che chiude il disco. Ma, se il primo pezzo era diviso fra dolcezza e sperimentazione, qui c’è spazio solamente per le più raffinate melodie. Difficile, o meglio impossibile, descrivere la struggente leggerezza di questo brano, le delicate melodie del pianoforte, il crescendo del synth, la voce di Boz, l’assolo di Collins, il generale e diffuso intimismo che ogni singolo frammento riesce a sprigionare. Una tra le più belle canzoni dei King Crimson, posta a chiusura di un album molto spesso incompreso.
«Fama crescit eundo», la fama aumenta col tempo, ebbe a scrivere Virgilio. Ma dal momento che la fama è in grado di spingersi anche regressivamente e innescare un processo denigratorio contro chi non lo meriterebbe affatto, mai parole furono più veritiere. Speriamo la rotta possa essere invertita, anche se, in caso contrario, senza eccessivo rammarico continueremo a lasciarci commuovere ogni qual volta Island prenderà a girare sul piatto del nostro giradischi.