Molti anni fa, mi appassionai, a seguito dei miei studi in materia botanica, agronomica e ambientale, alla storia della scienza con particolare attenzione alla storia delle scienze naturali e della botanica. Chi c’era dietro quei nomi di piante spesso classificate con riferimenti puntuali alla loro forma, uso, caratteristiche morfologiche? Mi soffermai su tanti nomi di uomini, quelli che le studiarono, le scoprirono e le resero note all’intera comunità scientifica. La strada fu breve, perché la ricerca mi condusse ai cacciatori di piante e nella città di Firenze, baricentro per la scienza botanica in Italia e in Europa. La prima Società botanica d’Europa, la Società Botanica Fiorentina, nasce nel 1716 per volontà di Pier Antonio Micheli, prefetto dell’Orto botanico fiorentino; qui viene costituito nel 1841 l’erbario Centrale Italiano con Filippo Parlatore, scienziato botanico e viaggiatore, qui esce il primo numero del Giornale Botanico Italiano nel 1844, qui nel 1874 ebbe luogo il primo Congresso Botanico Internazionale, i cui Atti vennero pubblicati a cura della Reale Società Toscana di Orticultura nel 1876, e fu proprio in questa occasione che si venne delineando un primo progetto di costituzione di una Società Botanica Italiana.
Tra le mura dell’Istituto di Botanica di Firenze iniziai molti anni fa le mie prime ricerche di storia della botanica Italiana e scoprii, con la pubblicazione del mio primo libro, che la storia era una storia di uomini, scritta da uomini. Mi sorprese e sconcertò sempre di più come per secoli si era cancellato quel legame indissolubile tra la natura, la madre terra, e poi la flora in particolare e il femminino. La cultura matrifocale, quella incentrata millenni prima di Cristo sulla Dea Madre, subì un rapido declino con la detronizzazione di tante divinità femminili, Demetra, Cibele, Artemide, Gea e altre che divennero corollario di quelle maschili. Di pari passo si affranca una cultura del predominio della natura e quindi sulla donna per conseguenza diretta e indiretta.
Ho sentito per questo l’esigenza di raccontare un contesto, di collocare nella storia questo processo di allontanamento forzoso, perché altrimenti avrei rischiato di perdere credibilità anche di fronte ai fatti, alla verità dei fatti. Quindi prima di arrivare al racconto delle donne e della scienza botanica ho dovuto indagare a fondo sulle motivazioni di questo processo accidentato di riavvicinamento del genere femminile al mondo della scienza botanica. Mi interessava soprattutto la storia di quelle di donne che non rappresentavano le “eccezioni”, quelle che di solito connotano la storia delle donne affidata alla penna degli uomini per molti secoli, da Circe a Medea a Cleopatra tra quelle leggendarie fino alle regine come Semiramide ideatrice dei giardini pensili a Ninive o Caterina II di Russia giardiniera del parco di Czars-Ko-Selo. Mi addentrai in una ricerca quindi per arrivare a una narrazione che è anche racconto di storia della scienza. Ed è anche il racconto di una condizione in cui vivevano le studiose: sociale, familiare, accademica. Una storia degli eventi che hanno interessato l’evoluzione della scienza botanica nel corso degli ultimi due secoli. Ho intravisto quale filo conduttore, a posteriori della raccolta dei dati biografici e bibliografici di queste venti figure di donne, la dimensione della relazione, il conflitto sciolto dalla cultura del confronto, tipica del femminile, che predilige l’accoglienza, la socialità in cui le donne sono riconosciute sovrane.
Voglio citare l’avventura storica delle Preziose, quelle protagoniste dello sciocco libretto di Molière che si era divertito a schernirle in una commedia e renderle oggetto di derisione. Quelle donne che divennero poi con l’emblematica figura di Catherine de Vivonne (1588-1665) marchesa di Rambouillet, nella sua casa, nella “camera azzurra”, il prototipo dei salotti letterari e scientifici ove si conduce per la prima volta un grandioso esperimento politico, estetico e spirituale laico. Ove l’ideale collettivo di vita sociale, non contempla potere, armi e denaro ma è spinto da finezza di pensiero e comportamenti. Come non pensare a Carla Lonzi, fiorentina fondatrice del manifesto femminista nel 1970, che si soffermò proprio su questo “stupido libricino”.
Questa acutezza di pensiero si esplica anche in uno splendore interiore, nel gusto del comportarsi, delle relazioni e del parlare insieme. Una finezza intellettuale e spirituale, che ho potuto cogliere nelle venti donne che ho indagato, dimostrata nei rapporti con i discenti, i colleghi e soprattutto con i familiari mai messi ai margini al contrario di quanto purtroppo il pensiero comune potrebbe indurre a pensare. Molti gli esempi che potremo fare qui, da Eva Mameli Calvino, scienziata messa in ombra dalla figura del figlio Italo, noto scrittore, a Onorina Passerini, viaggiatrice botanica fiorentina dei primi ‘900 da me scoperta in un archivio di famiglia a Pozzolatico, a Carmela Cortini, unica donna botanica del ‘900 esperta di muschi, a Silvia Zenari grande naturalista a cui fu negata la cattedra di botanica nei primi del XX secolo. Ho raccontato le appassionate, le studiose, le presidi integerrime, le direttrici di Dipartimenti e Orti botanici, ma anche le madri, le donne in viaggio, al seguito e non, le figure in ombra, che lavoravano con abnegazione nel backstage in modo silenzioso.
Non ho mai trovato nei loro diari, lettere e documenti privati, sentimenti di sfida, invidia, competizione sleale verso colleghe e colleghi ma piuttosto adeguatezza nelle relazioni e affinità spirituale, onestà, cioè capacità di dire la verità, con leggerezza e forza, educazione e buon comportamento, cioè saper trattare rapporti e conflitti senza potere e senza armi, giocosità, capacità di immettere gioia nei rapporti (per rispetto dell’altro e per tenere alto il tono delle relazioni – in una parola eutrapelia, saper volgere al meglio sé e le circostanze). Molte di loro sono state schernite, di alcune si diceva che praticavano la scienza per diletto, per distrazione, come consolazione alla solitudine, per ostentazione di se stesse, altre volte disprezzate o ignorate. Mentre la loro sapienza, pochi se ne accorsero, era proprio quella del costruire relazioni. Con tatto e finezza di intenti, a volte in silenzio, hanno prodotto una rivoluzione simbolica, promuovendo la cultura (ricercatrici e divulgatrici), le arti (le pittrici e le disegnatrici botaniche), l’istruzione (le docenti), la scienza (con le scoperte e le innovazioni), facendo crescere le istituzioni della cultura con adeguatezza e buongoverno.
Ho ritenuto quindi necessario, in questo mio tentativo di ricostruire una raccolta di venti biografie di grandi naturaliste italiane vissute in un arco temporale di tre secoli dal ‘700 al ‘900, partire con qualche spunto dalla storia di genere legata alla scienza, alla conoscenza del mondo naturale, dagli archetipi e dai miti antichi dalle divinità femminili del medio oriente, del modo greco e latino classico, per poi passare al medioevo, alle scuole delle Erbarie, da quella Salernitana alle streghe depositarie di un sapere antico alchemico e connesso alle pratiche magiche per la cura di malattie organiche e mentali. Un cenno alla rinascita dell’interesse della donna verso il giardino e il paesaggio e la natura con il rinascimento e poi attraverso le nuove scoperte scientifiche, alla nascita delle Società Botaniche e scientifiche connesse alla difficoltà per le donne di farne parte, fino alle prime donne laureate e docenti nella materia botanica a partire dai primi del XX secolo, come la storia biografica assolutamente narrativa di Eva Mameli Calvino prima docente italiana della cattedra di botanica nel 1915.
Questo lavoro sulle donne scienziate naturaliste e appassionate non intesse un elogio, un agiografia delle figure femminili e comunque non voleva essere questo l’intento, bensì quello di tessere una sorta di “storia imprevista, eppure necessaria”. Prendo quindi a prestito una frase della studiosa Annarosa Buttarelli, dal suo libro “feticcio” dal titolo Sovrane, che mi ha accompagnato tra i tanti della mia libreria, un concetto legato al metodo con cui avvicinarsi a una storia apocrifa delle donne che casualmente in quel suo testo si rifà a una metafora botanica: fare “conto sugli scarti, sui rimossi, sulle minuzie sfuggite al controllo della storia e abbandonate nei suoi spazi interstiziali che gli storiografi usualmente ignorano. Una stella alpina nascosta tra una roccia e l’altra …”. Non ho voluto costruire un dizionario biografico ma uno spaccato di storia della botanica che racconta vicende apocrife o che avrebbero rischiato di diventarlo, che non ha sicuramente contemplato tutte le naturaliste ma ne ha curato alcune figure che ho ritenuto emblematiche per la loro storia personale e il loro operato.
Chiudo questo breve excursus con una frase di Virginia Woolf che mi ha spesso stimolato attraverso le sue lezioni di scrittura a perseverare nei miei tentativi di raccontare queste vicende: “Se consideriamo la verità come qualcosa la cui solidità è simile al granito, e la personalità come qualcosa di impalpabile come l’arcobaleno, e riteniamo che scopo della biografia sia saldare insieme queste due parti in modo da ottenere un tutto unico e genuino, dobbiamo ammettere che si tratta di un problema veramente difficile da risolvere e non dobbiamo certo meravigliarci del fatto che la maggior parte dei biografi abbia fallito in questa impronta. […] Il biografo coscienzioso non racconta una bella storia, piena di svolazzi, ma deve faticare percorrendo labirinti infiniti, deve confondersi in mezzo alla grande quantità di documenti. Infine la sua produzione risulta essere una massa informe: una biografia di Tennyson o di Gladstone, nella quale andremo alla ricerca sconsolata di un aneddoto o di una risata, di un’imprecazione o di un moto d’ira, di una qualsiasi traccia che testimoni che questo fossile era una volta, un essere vivente”. (Virginia Woolf, Granite and Rainbow, 1958)
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