Il passo del cambiamento - o, forse, anche soltanto il cambiamento di passo... - è quanto servirebbe, e con urgenza, in tantissimi aspetti della vita collettiva di questo paese. Senza il quale, il declino potrebbe raggiungere un livello di ‘non ritorno’, oltre il quale potrebbero essere necessarie numerose generazioni per risalire la china - e non è detto che ci si riesca. E, tra i tanti aspetti in cui tale cambiamento appare particolarmente necessario e impellente, v’è certamente quello della cultura. Una ‘cosa’ di cui talmente tutti parliamo e straparliamo, che - temo - non sappiamo neanche più bene cosa significhi. Sembrerà un calembour, ma cambiare il nostro approccio alla cultura, richiederebbe innanzi tutto un cambiamento culturale.
Tanto per cominciare, togliamole la maiuscola. Che a furia di innalzarla (a parole... ) sugli altari, ne abbiamo poi fatto vanamente sacrificio. Togliamole quest’aura che le abbiamo costruita, che ci ha poi portato a immaginarcela come qualcosa di aulico, di elevato (la Cultura... ), inevitabilmente contrapposto a un’altra cultura, ‘bassa’, stracciona. Una divisione che, oltretutto, non ci ha minimamente aiutato a distinguere il grano dal loglio, ma anzi è stata foriera di una nuova confusione babelica, con l’etichetta di ‘culturale’ affibbiata anche a cose che nulla vi hanno a che fare, o con l’espungere dalla cultura alcuni suoi ‘pezzi’, solo perché considerati poco ‘nobili’.
E, per restare in tema di confusione culturale tra ‘alto’ e ‘basso’, ecco che a questo punto calza a pennello una citazione tra le più citate, e per ciò stesso stravolte - un po’ come l’immagine iconografica di ‘Che’ Guevara, divenuta persino elemento di un marketing straccione e di massa. “Grande è il disordine sotto il cielo, la situazione dunque è eccellente”, diceva il rivoluzionario cinese Mao Zedong. Che non significa affatto che ci piace il casino, o che la confusione sia proficua. Al contrario, l’aforisma rappresenta la consapevolezza, per chi vuol cambiare le stato di cose presente, che quando le condizioni storiche producono una accelerazione, e questa a sua volta genera disorientamento generale, ciò diventa una opportunità per chi, al contrario, sa con chiarezza cosa vuole cambiare, e come.
Certo, per cogliere l’opportunità ci vogliono persone capaci di farlo. E che ne abbiano la volontà. Mettendosi in gioco. Ma, appunto, servono anche idee chiare. Ora, che si stia attraversando una fase di grande ‘disordine’, e che - soprattutto nel cosiddetto ‘Occidente’ - non si sappia bene come affrontarlo, è sotto gli occhi di tutti. E, nel nostro piccolo, anche l’Italia sta attraversando una fase ancor più disordinata, in cui sembrano mancare risposte positive agli annosi problemi che, nel contesto di una ‘crisi’ globale, risultano ancor più aggravati. Riflettere dunque su alcune idee, che possano servire al ‘cambiamento di passo’, è cosa utile.
Se si fosse quindi alla vigilia di una svolta, culturale e politica, in grado di rimettere in carreggiata il paese, offrendogli una nuova prospettiva di crescita (non solo economica), e al tempo stesso un ‘senso’ di sé e del proprio ruolo nel mondo, occorrerebbero degli strumenti concettuali capaci di supportare e concretizzare la ‘svolta’. E poiché s’è parlato di cultura, è su questo terreno che si proverà ad abbozzare un’ipotesi, ad aprire un ragionamento. Poiché non v’è cambiamento efficace che non investa le strutture apicali, andrebbe assolutamente messa in campo un’operazione chirurgica sulla concezione stessa dei ministeri (e degli assessorati d’ogni livello... ): dividere, una volta e per tutte, il Ministero dei Beni Culturali e del Turismo, accorpando opportunamente quest’ultimo al Ministero delle Attività Produttive, e creando un Ministero dei Beni Paesaggistici e Culturali.
Ciò innanzi tutto in virtù della necessità di separare ‘culturalmente’ due ambiti che, se pure hanno ovviamente dei punti d’intersezione, rimangono fondamentalmente e radicalmente diversi. Il turismo, opportunamente gestito, è un importante risorsa economica, che può contribuire allo sviluppo del paese e creare opportunità occupazionali. I beni paesaggistici e culturali sono primariamente una risorsa non-economica, un ‘bene’ collettivo, che ci viene dalle generazioni precedenti e che abbiamo il compito di trasmettere alle generazioni successive.
Il primo, è un terreno in cui l’iniziativa privata ha giustamente un ruolo principe, mentre al ‘pubblico’ spetta la definizione delle regole e il controllo del loro rispetto, affinché l’interesse individuale non vada mai a scapito di quello collettivo. I secondi sono invece terreno d’elezione naturale dell’azione ‘pubblica’, ovvero esercitata in nome e nell’interesse della collettività. Il turismo, dev’essere capace di rispondere al meglio alla ‘domanda’. I beni culturali devono essere capaci di fornire al meglio una ‘offerta’. Il primo ragiona in termini di fruizione, i secondi devono ragionare in termini di conoscenza. E soprattutto, i beni culturali rientrano a pieno titolo nella categoria dei settori ‘strategici’, quelli su cui mai dovrebbe venir meno il controllo pubblico, come l’istruzione, la sanità, la difesa, le telecomunicazioni...
Operare questa distinzione netta, significherebbe sancire - anche sul piano ‘formale’ - un opportuno riallineamento culturale, di mentalità. Oltre al fatto che, ovviamente, ciò avrebbe immediate conseguenze pratiche. Mantenere questo binomio, infatti, ha finito col produrre una ‘sudditanza’ della cultura nei confronti del turismo, una funzionalità di quella alle esigenze di quest’ultimo. Abbiamo insomma trasformato i beni culturali in ‘merce’, attribuendogli un valore innanzi tutto in base alla capacità di produrre redditualità, e per ciò stesso assoggettandoli alle legge del mercato. Questa concezione ‘marketing-oriented’ dei beni culturali, l’idea stessa che siano una ‘risorsa’ da sfruttare - nella fallace convinzione che sia ‘inesauribile’ - sta in realtà producendone il depauperamento, la consunzione. La conservazione dei beni culturali, infatti, è innanzi tutto il mantenere vivo un rapporto di consapevole conoscenza tra la cittadinanza ed il bene. Senza il quale, appunto, non rimane che una relazione utilitaristica, relegata all’opportunità o meno di sfruttarlo a fini economici.
E negli ultimi anni, questo atteggiamento ha preso ulteriore vigore, incoraggiato dalle politiche messe in essere dai governi che si sono succeduti, e che - nascondendosi dietro il falso alibi della scarsità di risorse - spingono verso una sempre più accentuata ‘privatizzazione’ dei beni culturali. In realtà, esattamente come per l’istruzione e la sanità, le politiche attuate hanno prodotto il parallelo degrado delle strutture pubbliche e la crescita di quelle private. Basti pensare alle condizioni in cui versa la scuola pubblica, e a quanto queste potrebbero migliorare se, rispettando il dettato costituzionale, non fosse stornata alcuna risorsa verso l’istruzione ‘privata’ (“Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. Art. 33).
Quel che denuncia Tomaso Montanari a proposito della riforma Franceschini (“si basa su un principio semplice, anzi brutale: separare la good company dei musei (quelli che rendono qualche soldo), dalla bad company delle odiose soprintendenze, avviate a grandi passi verso l'abolizione”), è in realtà un profilo attitudinale ben più vasto, la cui logica è separare il redditizio dall’oneroso, mettendo in mano la gestione del primo sempre più ai privati, e lasciando il secondo al pubblico - che, in virtù di risorse destinate (anche) così a calare, se ne prenderà cura in modo sempre minore. Ovviamente, non si tratta qui di negare il valore anche economico dei beni paesaggistici e culturali. Quanto, piuttosto, di considerarlo comunque subordinato al loro valore non-economico; e pertanto, di ritenere la possibilità (e le modalità) per renderli ‘redditizi’, come qualcosa che debba sempre essere compatibile col rispetto del valore primario (quello, appunto, storico e culturale), e che debba essere sempre affidata alla gestione pubblica.
Occorre insomma una ‘rivoluzione culturale’, che non abbisogna di ‘guardie rosse’ ma piuttosto di cittadini consapevoli. La consapevolezza che i beni paesaggistici e culturali sono un bene comune, di cui cioè nessuno può essere beneficiario esclusivo, e che questa ‘comunità di possesso’ riguarda sia le generazioni precedenti che quelle future, è un’arma potentissima. È ciò di cui si avverte il bisogno, e che deve investire ogni livello della ‘cosa pubblica’. È tempo di allungare il passo. Ora.