Ci sono opere tanto importanti come significato e genesi che finiscono col simboleggiare una sorta di “luogo ideale”, una dimensione in grado di racchiudere ogni singolo episodio che le ha alimentate, isole nello spazio-tempo in cui nulla si è mai veramente esaurito e resta a sé stante rispetto al normale scorrere della vita. Ciò è avvertito dall’artista che crea, naturalmente, ma nondimeno dal pubblico, il quale percepisce l’energia e l’identità dell’opera ancora prima di conoscerne la storia. La musica è disseminata di questi “luoghi”, di ascolti che aprono le porte dei sensi e ci mostrano paesaggi dell’anima irripetibili eppure eterni. Farci ritorno veramente – a livello di intensità, oltre che di “programma” - non è infatti un’impresa per tutti: certe “chimiche” non sono distillate dalla volontà e dalla bravura, non è sufficiente almeno, c’entra anche il destino.
Nella carriera di Mike Oldfield, geniale musicista inglese fautore di un inimitabile sinfonismo folk-rock, uno di quei “posti” si chiama Ommadawn (anglicizzazione di una parola dal gaelico che significa qualcosa di simile a “folle”) e oggi, a distanza di 42 anni dall’omonimo album, lì ci ha riportato tutto se stesso, componendo, arrangiando e producendo un seguito da sogno, intriso di eguale bellezza e struggimento e intitolato, in modo molto chiaro e altrettanto sincero, Return To Ommadawn. Oldfield a dire il vero si è spesso cimentato con i sequel – il suo album di maggior successo Tubular Bells (1973) conta tre capitoli più uno, The Millennium Bell (1999) - , e ciò sempre garantendo qualità e originalità: perché in fondo c’era un’ispirazione di base ma si trattava di nuove esplorazioni che mantenevano tutt’al più il titolo e puntellavano qua e là la partitura di citazioni, con gusto, in maniera discreta e talvolta divertita. In questi seguiti variavano poi alcuni requisiti imprescindibili dell’identità dei lavori originali (struttura dell’opera, strumentazione ecc.), proprio perché il campo della creatività non rimanesse troppo delimitato e fosse sostanzialmente il trampolino verso qualcosa di nuovo.
Qui però è diverso, perché Oldfield ha voluto essere il più aderente possibile al modello originale, come se fosse la continuazione di quello stesso identico stato d’animo e la musica avesse bisogno di un “indirizzo” preciso per essere compresa e realmente fedele a se stessa. Inquadriamo intanto il primo Ommadawn (1975). Con Tubular Bells - best seller da 17 milioni di copie vendute - e Hergest Ridge (1974), l’album originario chiude la fase considerata più classica della discografia del polistrumentista di Reading, un “terreno” sul quale, anche solo concettualmente, Oldfield non rimetteva piede da tanti anni (da Incantations, 1978). Il motore che sta dietro a Ommadawn è quello della sfida, una scintilla accesasi dopo aver visto che il secondo capitolo Hergest Ridge era stato scalzato dalla vetta della classifica inglese dal disco di debutto.
Il musicista non voleva rimanere imprigionato dalla fama della sua fortunata prima creatura (il disco peraltro che ha permesso a Richard Branson di costruire il suo impero) e si rimette subito al lavoro, pretendendo dalla Virgin Records (ne aveva di fatto il potere e il diritto) la strumentazione tecnica occorrente per poter registrare in totale autonomia, nella sua casa nell’Herefordshire, le nuove composizioni che lo avrebbero visto nel ruolo di musicista, ingegnere del suono e produttore artistico. A poche settimane dall’avvio delle registrazioni però Mike Oldfield deve affrontare la scomparsa della madre, dolore immane per il quale a un certo punto decide che non c’è altro rimedio se non buttarsi ancora di più nel lavoro. Purtroppo a metà album registrato, con per di più parecchi contributi di altri musicisti, un difetto dei nastri, che si ossidano e cominciano a sbriciolarsi, lo costringe a ripartire da capo. Eppure, dopo un primo momento di sconforto, ripartire sarà la chiave di volta dello spessore emotivo e tecnico del lavoro: tanta era la dimestichezza raggiunta con le macchine nelle precedenti tortuose fasi che ora poteva davvero lasciarsi andare alla musica.
Fra un’escursione a cavallo e una lezione di volo (una delle sue grandi passioni, otterrà pure il brevetto), Oldfield, fra gli altri, coinvolge nel progetto il musicista e amico Leslie Penning, esperto suonatore di strumenti medievali, il fratello Terry e la sorella Sally, il grande Paddy Moloney dei Chieftains, la cantante folk Clodagh Simonds, il quartetto di percussionisti africani Jabula, la banda locale di Kington e figli di amici del posto. Lui poi farà la parte del leone suonando, come suo solito, una quantità incredibile di strumenti (chitarre di tutti i tipi, arpa, bazouki, spinetta, organo elettrico, piano, percussioni ecc.). E cantando nella finale On Horseback. Il tutto rigorosamente diviso, come già era accaduto nei capitoli precedenti, in due parti, o, in gergo prog, in due suite, con lo stesso titolo e seguite dal numero.
Quello stile unico, in partenza vagamente ispirato al Bolero di Ravel, condito di Bach, folk e rock progressive, ha poi viaggiato nei decenni, adattandosi e producendo capolavori immortali anche in forma di canzone pop (gioielli come Moonlight Shadow e To France, giusto per citarne un paio), si è cimentato con la world music, la techno, il chill-out, la musica sinfonica e altro, mantenendo un proprio marchio distintivo e continuando una specie di tradizione, ma non guardando mai in modo troppo stretto ai modelli che lo avevano reso famoso. Solo Amarok (1990) – che infatti nelle idee iniziali si proponeva di essere un Ommadawn II - tenterà qualcosa del genere, regalando agli appassionati della prima ora un monumento prog (un solo movimento di 60 minuti con musica che cambia di continuo) in chiave moderna; per il resto Mike Oldfiled ha sempre osservato – certo, con la propria sensibilità e il proprio mestiere - il presente.
A Ommadawn oggi, facendo appunto finta che sia un “luogo”, se non una condizione particolare dello spirito, ci si è ritrovato suo malgrado e anche questa volta la musica lo ha salvato, trasformando la vita in note, in un obiettivo da perseguire, in un’architettura precisa edificata per custodire ricordi e sentimenti. Nel giro di qualche anno Oldfield ha perso il figlio Dougal (morto per cause naturali nel 2015 a soli 33 anni) e il padre, ha inoltre divorziato e, come rivela nell’intervista di Paul Lester per la rivista Classic Rock (sull’edizione italiana, n. 51, Febbraio 2017), ha frequentato “più avvocati che amici”. Dice anche: “Dalle Olimpiadi a oggi” – quando nel 2012 suonò alla cerimonia di apertura, raggiungendo un pubblico mondiale – “mi sono dovuto confrontare con il lato più oscuro della vita e della natura umana. Almeno non mi sono annoiato”.
È qui dunque, dentro questo dolore, che comincia a farsi strada Return To Ommadawn (2017), e il desiderio di gettare un ponte nel passato, recuperandone la struttura formale e quanto più possibile della strumentazione originale (dove non è stato possibile farlo fisicamente sono stati utilizzati dei plug-in in grado di replicare esattamente i suoni reali). A differenza del “capostipite”, qui Oldfield suona tutto da solo, persino le percussioni africane: non ci sono musicisti ospiti. Il clima però è magicamente lo stesso e, ulteriore nesso con le origini, ci sono le tracce vocali del 1975 riprese, tagliate, rimontate e modificate in qualcosa di assolutamente famigliare, molto celtico, eppure diverso, provvisto di una nuova cantabilità.
Poco cambia che il disco sia registrato alla Bahamas, dove ora il musicista abita, e non fra le colline inglesi nei dintorni di Kington, perché il paesaggio che si apre all’ascolto lo si riconosce subito. Il gioco di sovraincisioni, di produzione e di “regia”, coi temi portanti che passano da uno strumento all’altro, creando piani sonori differenti, il capovolgersi dei ruoli, i pieni “orchestrali” a cui si contrappongono improvvisi dialoghi di sole chitarre dai suoni cristallini, le sferzate elettriche di fondo, l’incalzare ritmico delle chitarre acustiche, i fraseggi dei flauti, e poi ancora gli strati di tastiere che via via si aggiungono e accompagnano verso il climax per poi ricominciare il “rito ciclico” da un punto diverso e sviluppare la musica da un’altra angolazione, sono un’opera di maestria tecnica e compositiva che dimostra anche una piena consapevolezza dell’apparato tecnologico, oggi come allora. Il tutto, unito a una scrittura dal sapore modale in cui non c’è una sola nota che non provenga dal cuore, fa di Return To Ommadawn un nuovo classico e un capitolo imprescindibile della discografia di Mike Oldfield. Meravigliosa la cover “invernale” in stile fantasy che il musicista, grande fan della seria televisiva Il Trono di Spade, ha suggerito ai grafici. Come il precedente Man On The Rocks (2014), l’album è su etichetta Virgin Records, altro punto di congiuntura col passato.