Uno degli aspetti della Prima guerra mondiale che più di altri hanno influito sul mio interesse e passione per gli eventi di questo drammatico periodo dell’ormai secolo scorso, anche se per quelli della mia età non è stato così remoto così come potrebbe sembrare o come ce lo raccontavano a scuola, avendo potuto conoscere di persona anche chi ne aveva preso parte, i nostri nonni, è sicuramente quello umano e quello che riguarda l’atteggiamento dei soldati nei confronti di questo evento.
Per ragioni di ricerca, studio e documentazione, soprattutto dopo la nascita di “cimeetrincee”, prima il sito e in seguito l’associazione che abbiamo fondato nel 2007, che si occupa appunto di questi aspetti riguardo la storia della Prima guerra mondiale, ho dovuto occuparmi sia dell’aspetto “tecnico”, militare, strategico e puramente storico di questo periodo, ma sempre prioritario nelle mie ricerche e soprattutto nel cercar di raccontare agli altri quello che è stata la Grande Guerra, è l’aspetto umano dei soldati in trincea. Come vivevano, o forse meglio, come cercavano di sopravvivere, come combattevano, cosa pensavano, cosa scrivevano, come si ponevano difronte a degli aspetti della vita che erano loro completamente estranei, nuovi e drammatici, e che sicuramente mai avrebbero pensato di dover vivere, e soprattutto quale era il loro atteggiamento nei confronti della morte che li circondava quotidianamente.
Una delle domande che mi sono sempre posto è questa: come è possibile prendere una persona qualunque, normalissima, con una famiglia, una casa, una vita da vivere, mettergli una divisa addosso uguale ad altre migliaia di persone, un fucile in mano e ordinargli, così, “dalla sera alla mattina” di ammazzare degli sconosciuti con buone possibilità di venir ammazzato egli stesso per un qualcosa che nemmeno conosceva… e questa persona, senza alcun motivo di dissenso, lo fa, come non avesse fatto altro nella sua vita. Senso del dovere e amor patrio, rassegnazione, queste normalmente le motivazioni più semplici che vengono date. Ma dovere verso chi e che cosa? Amor patrio? Concetti retorici o propagandistici o da pseudo intellettuali dell’epoca.
Che ne poteva sapere un contadino di questi concetti quando la sua vita era limitata alla famiglia al suo campo, al massimo ai parenti e agli amici del paese dove viveva. Cosa poteva conoscere un siciliano o un sardo dei “sacri confini” della patria quando gli unici confini che conosceva erano le acque che circondavano la sua isola. Cosa poteva pensare un montanaro delle zone di confine, che magari per lavoro o altre attività aveva fino a ieri avuto amichevoli contatti con quello che da un giorno per l’altro era diventato il nemico da uccidere. Un nemico con il quale negli anni passati magari aveva condiviso eventi anche felici della sua vita e che adesso uno Stato, che non conosceva, con il quale non aveva mai avuto a che fare e che si ricordava forse di lui solo quando doveva riscuoterne le tasse, gli ordinava di uccidere? Eppure questi uomini, alla chiamata si presentarono subito, e non certo credo per paura dei carabinieri. Lasciarono moglie, figli, genitori, lasciarono la loro casa, gli amici, vestirono una divisa, si armarono e andarono al fronte senza protestare, come bestie al macello. Altri tempi, qualcuno dirà con ragione, altre "teste", altri uomini. Certo anche questa potrebbe essere una risposta, ma resta secondo me, anche se mi occupo di questi argomenti ormai da anni, sempre un qualcosa di difficile comprensione.
Come è difficile da comprendere per noi adesso, abituati alle comodità del giorno d’oggi, come si potesse sopportare tutto quello che dovettero sopportare i soldati nelle trincee della Grande Guerra. Il freddo, la fame, la paura, la convivenza con la morte. Spesso i cadaveri degli attacchi precedenti rimanevano insepolti nella terra di nessuno per settimane, i soldati in trincea erano spettatori involontari del loro disfacimento. A volte resti umani uscivano dalla terra delle stesse trincee, oppure si doveva convivere accanto ai resti di un compagno caduto: “Un'intera nottata / buttato vicino / a un compagno/ massacrato / con la sua bocca / digrignata / volta al plenilunio / con la congestione / delle sue mani / nel mio silenzio / ho scritto / lettere piene d'amore / Non sono mai stato tanto / attaccato alla vita.” Scriveva Giuseppe Ungaretti il 23 dicembre del 1915 a Cima Quattro sul San Michele mentre vestiva la divisa da fante della brigata Brescia.
Ma non solo, altri diari di soldati di altri eserciti e in altri fronti riportano situazioni simili: “L'odore della morte è stordente, a tratti mi pare provenire non dai campi, pieni zeppi di cadaveri, ma dal mio stesso corpo. Con un morto, un russo tenuto in piedi dal filo spinato, ho preso una certa confidenza. Se ne sta lì ad occhi spalancati, osservandoci con perfetta indifferenza. L'indefinibile ghigno in cui è bloccato il suo viso lo fa apparire un saggio che ride della guerra e della sua stessa sorte”. Così nel libro di Dario Malini Soldato Otto, taccuino di un nemico il soldato ebreo tedesco Otto ci descrive la sua esperienza con la morte.
Un’altra esperienza fra quelle vissute dai soldati della Prima guerra mondiale, difficile da comprendere al giorno d’oggi, ma attenzione il paragone è sempre tra i soldati della Grande Guerra e persone normali che vivono una vita che possiamo definire normale: casa, famiglia, amici, attività e interessi vari, in ambienti normali, non certo in zone in cui la guerra e la violenza sono la normalità, è sicuramente l’incontro con la morte di massa. Le guerre precedenti, pur nella loro drammaticità e crudezza, in quanto caduti non hanno alcun paragone con i “numeri” registrati nella Grande Guerra. Nel suo libro Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti George Lachmann Mosse, storico statunitense di origine tedesca, riportava che il numero di caduti nella Grande Guerra è più del doppio di tutti i caduti negli eventi bellici di una certa importanza svoltisi tra il 1790 e il 1914.
Non so se questo conteggio è esatto o meno, resta il fatto che per esempio, nella guerra franco-prussiana, l’ultima in Europa, prima della Prima guerra mondiale, di un certo rilievo, il conto totale dei i caduti era stato di circa 350.000 soldati. Nella Grande Guerra singole battaglie registrarono perdite assai superiori. Nella sola battaglia dell’Ortigara del giugno 1917 la VI Armata perse 28.000 uomini fra caduti, feriti e dispersi. La battaglia della Somme dal luglio al novembre del 1916 a fronte di poco più di 10 Km di territorio presi al nemico da parte dell’Intesa, il conteggio delle perdite, tra caduti, feriti e dispersi fu di circa 620.000 tra gli inglesi e francesi, e di 450.000 nelle file dei tedeschi.
Come potevano i soldati, magari fino a pochi giorni prima ancora “civili”, sopportare tali carneficine e continuare a mettere in gioco la propria vita, davanti l’inutilità della tragedia? Molti infatti non ce la facevano. Tanti i casi documentati di suicidi in trincea, o di soldati che dovevano essere ricoverati e che in Inghilterra definirono colpiti da Shell Shock e che in Italia più prosaicamente definirono “scemi di guerra”. Ma i tanti rimasero e combatterono fino alla fine. Perché e come fecero? Domande che forse non troveranno mai risposta, per quanto si possa studiare o fare ricerche, soprattutto perché e per fortuna, non abbiamo ancora vissuto e ci auguriamo di non dover mai vivere esperienze così tragiche e drammatiche come solo una guerra lo può essere.