Quei sedici anni passati da vent'anni. La vita che inizia ad intarsiare, con tagli profondi, il tondo del tuo guscio. Si muore sempre quadrati. Prima rotoli, prendi velocità, poi, taglio dopo taglio, ti fermi. Prima discese poi piani stabili e salite. Non è una visione negativa, è la descrizione esatta del percorso.
Ma parlo per me, non faccio discorsi generazionali, non devo rappresentare niente, non posso insegnare niente, non voglio essere niente.
Solo ricordo e rifletto, per imparare, semmai, io, ad essere madre di figli che non per forza devono essere miei. Una responsabilità che voglio, che devo avere, anche solo muovendomi per strada, anche solo incrociando una ferita di due generazioni più piccola della mia. Io devo prestare il primo soccorso, stando in silenzio, sfiorando appena, spalla contro spalla, ché uguale è l'altezza ma forse non il fondo che abbiamo toccato. E mi incurvo di protezione, come un'imitazione plastica di quel guscio che invece respirava. Ma forse può parare una freccia che un arco scemo ha perso, o almeno riparare dal freddo.
Quei sedici anni, coetanei della mia nostalgia, che non mi tiene bloccata nel passato, che non è rimpianto, che non è tristezza, né malinconia. È più che altro la foto del santo, quello che mi sono portata a casa dal viaggio.
Non era meglio prima, non è meglio adesso. È meglio sempre ed è meglio tutto.
Ma ho trecentosessantacinque giorni di quell'anno sulla scrivania, fuori dall'archivio, e non riesco a metterli a posto. Tra i quindici e i diciassette anni non ci stanno, non ci entra nemmeno la metà.
Ogni tanto ne prendo uno e lo ricalco, lasciando un solco in un giorno bianco, e ci disegno intorno, colorando sempre fuori dal bordo.
Ogni tanto capita un giorno brutto. Allora scrivo finali alternativi, metto asterischi, cambio di posto gli addendi, giusto così, per immaginare, per rivedermi, per fare finta di salvarmi.
Oppure capitano giorni dei quali mi vergogno. Quelli li lascio come sono, e quando li ricalco sono sempre tentata di saltare un passaggio, ma rallento e ripeto tutto ad occhi e a testa bassa, la mano tremante, le guance calde.
Come quel giorno (ve lo ricopio), che a scuola decisero di mandarmi da uno psicologo. Non era la prima volta che ci andavo. Ma era la prima che andavo da lui. Era un uomo della mia età di adesso, che all'epoca avrei chiamato “vecchio”, ma era un bell'uomo. Mi ricordava un pianista che avevo conosciuto quando avevo sette anni. Seguiva quella psicologia spicciola che ti accorgi subito che non funzionerà mai, già dall'ingresso. Infatti mi disse, indicandomi la poltrona che aveva di fronte: “Siediti come vuoi”. Come vuoi che mi sieda, scusa? Con la testa al posto del culo? Ma io amavo assecondare, lo amo ancora adesso, e allora mi sono seduta, normale, solo con le gambe aperte, una appoggiata sul bracciolo, il kilt scozzese che mi copriva a stento le mutandine. “Sai perché sei qui?”, mi chiese. “Perché dicono che mi isolo, che non faccio gruppo, che faccio strane battute sessuali.”. Me le chiese, allora, ed io gliele elencai. Non erano vere e proprie battute, a ricordarle adesso. Erano apprezzamenti per niente volgari alle mie compagne, erano desideri.
“Ma andiamo più a fondo”, mi disse. Qual era il mio rapporto con il sesso, cosa avevo e non avevo fatto, a che punto ero arrivata (non sapevo ci fosse una scaletta, un ordine da seguire), cosa provavo quando ne parlavo. E quel discorso, invece di imbarazzarmi, mi scaldava, mi intestardiva, mi eccitava. E allora scivolai un po' più avanti sulla poltrona, quei cinque centimetri in più che permettessero al mio kilt di far vedere le mutandine, e con dissimulata ingenuità, lasciai cadere una mano tra le gambe, dondolandola un po' fino a sfiorarmi. E lui fece finta di niente, mi guardava dritto in faccia, saldo, come se io non sapessi che la visuale dei suoi occhi gli permetteva di godere benissimo dello spettacolo.
Ma lo stesso volevo andare fino in fondo, dove lui voleva portare me, con chissà quale astratto procedimento. Lo volevo portare nel mio abisso. Socchiusi gli occhi, mi morsi le labbra, feci un piccolo gemito, e finalmente colsi una reazione, un cambiamento nel suo colorito, lo sguardo crollato in mezzo alle mie gambe, uno spostamento irrigidito sulla sedia, un respiro di decompressione scappato dal naso.
E allora mi ricomposi di scatto, e balzai in piedi, con gli occhi neri come carboni, e dissi stupida, carica dei proiettili della mia adolescenza, come un avvocato impreparato che deve difendere il mondo dall'attacco degli adulti: “Dove mi vuoi portare, che mi basta un buco per portarti dove voglio io?”.
E me ne andai, sbattendo la porta, tronfia di quell'uscita infelice e irrispettosa, con quel potere nelle mutande che non ho mai voluto, neanche oggi, ma che ho, e che all'epoca non capivo ancora come gestire, come usare, letteralmente e metaforicamente, non sapevo il mio valore, non sapevo il metro di giudizio che mi spettava per essere nata femmina e per essere abbastanza adulta per essere posseduta e, forse, non per essere amata. Mi confondeva quella responsabilità che mi aveva dato la natura. Non ammettevo di doverla usare come un super potere, come con quello psicologo lì, che voleva liberarmi dai mostri.
Ed ora so che è stata una cazzata, un'accusa meschina e neanche tanto vera, che lui era lì per fare il suo lavoro, che ho peccato di presunzione e d'odio immotivato e blablabla.
Ma è qui, fuori dall'archivio, uno dei giorni di cui non vado fiera. Ma che racconto perché sbagliare, ora so, è un mio diritto, che non mi porterà mai all'inferno.
Il giorno e l'anno in cui siamo nati non ci fa diversi. Ci fa diversi il modo che abbiamo di inchiodarci al calendario. E le lance sul costato che ci teniamo, e tutte le maddalene che abbiamo lasciato in ginocchio.