Alcuni non hanno idea a cosa mi stia riferendo, altri invece hanno ben chiara l'immagine a cui riporta questa parola che è suono, vibrazione evocativa di rugiada che scivola dai vetri in una penombra fatta di grandi cocci che ribollono su ghisa di stufe a legna, sbuffando umidità che condensa nell'inverno di campagna dove la nebbia sembra mangiarsi i colli tutt'intorno. E sentilo come ribolle, lì in quell'angolo di tepore. Per ore se ne sta nel coccio di terracotta, dove la dolce signora vestita a strati, che prima silenziosa se ne stava a macerare tra sale e zucchero, ora borbotta con il grasso di maiale.
I due vestiti di bianco per il gran momento, in un intreccio di suoni e profumi che si tengono per mano, un ancestrale dialogo tra il mondo vegetale e quello animale a rivendicar la propria origine per poi incontrarsi in una soave e inevitabile coalizione. Cipolla e strutto. Dove la prima è un lamento per la perdita del proprio colore bianco avorio e il secondo, con toni più grassi e grevi, ribadisce la propria opulenza scandendo il tempo che rallenta per affinarne il gusto.
E che non si dica che questa melodia possa appesantire. La poesia non appesantisce mai. Non può farlo, per propria natura. Piuttosto, affina il palato. Un'eterna ricerca di equilibrio, come la Garisenda e l'Asinelli, che dritte non son dritte e se ne stanno lì in un equilibrio tutto loro. A vederle dal basso spesso la sensazione dello star in piedi viene a mancare a molti, in particolare quando scende il sole.
E fu una serata di gran balotta, forse un sabato sera dall'aria sbarazzina. A condizioni ideali, per molti il tempo si scioglie in una lenta e costante lotta al barcollo, risate e lacrime si mischiano in un calderone colmo a tal punto da riversarne in terra ciò che è di troppo. Preso atto del momento, le mille voci rimbombavano tanto forte da grugnire, e fu proprio in quell'angolo, laggiù dove la folla si sgranava, che sentii vociare da due giovani abbracciati in una postura goffa, con gli occhi al cielo quasi con sorpresa: "Soc'mel come pendono!". Ancor oggi ne sorrido ogni volta che alzando lo sguardo le due svettano a distrocere il mio senso di ordine e linearità.
Grassa e dotta Bologna. Da quanto tempo non ti sveli a me. E ora ti ritrovo qui, in una ricetta tanto importante da essere depositata alla Camera di Commercio. Un'anziana signora datata 1886, che si fa vanto del proprio tempo e così si lascia raccontare, con la voce greve e la dolcezza che scivola dagli occhi segnandone i contorni e poi giù alle sulle guance rosse come quei muri che ricordan la terracotta.
Una madonna in una nicchia di calore che così narra:
"Si necessita di: 4 kg di cipolle bianche, 300 grammi di pomodori pelati, 1 cucchiaino di sale grosso, 1 cucchiaino di zucchero, 2 bei cucchiai di strutto. Bisogna: pelare le cipolle, affettarle sottilmente (non tritare, a tal dégg), condirle con lo zucchero e il sale grosso, macerare per 2 o 4 ore. Coprire il recipiente dove si lasciano a macerare. Trascorso il tempo, mettere le cipolle con la loro acqua e lo strutto in un capace tegame e fare cuocere, a fuoco molto lento, mescolando di frequente fino a quando diventano di un bel colore biondo molto scuro. Se tendono ad attaccarsi aggiungere un po' di acqua. Unire i pomodori spezzettati e continuare la cottura ancora per un paio d'ore, sempre a fuoco moderato e sempre mescolando di frequente. Alla fine si deve ottenere una salsa cremosa".
Un elogio alla città, anzi a un paesone che ancor oggi vive a stretto contatto con la terra, con i suoi colli. Il friggione, per alcuni una salsa, per molti un contorno. Per altri ancora il tepore di un ricordo che profumava la stanza di una stagione, in un tempo di festa che oggi pare così lontano. Perché si che quelli eran tempi di gran bazza.