A diciotto anni solamente dalla morte già si pensa di vendere, a Mentana, Villa Federico Zeri. È stata edificata da Andrea Busuri Vici su una delle colline che fanno da anfiteatro alla città di Roma sulla misura voluta dal proprietario, in un contesto di terrazze e giardini che alla funzionalità aggiungono una riposante bellezza. Questo rifugio solitario accoglierebbe ancora il visitatore con una esposizione all’esterno di preziosi frammenti archeologici, creandone un “monumento” del quale così scrisse Gruen nel 1985:

Un mosaico siriano del IV secolo e iscrizioni dell’antica Roma compongono una sorta di collage che anticipa l’atmosfera di solitario raccoglimento della residenza. Non è antica, come ci si potrebbe aspettare: al contrario è stata costruita appena vent'anni fa, ma per raccogliere le testimonianze di culture millenarie e per difendere la solitudine di uno tra i più insigni studiosi della storia dell'arte che soltanto in questo luogo riesce a concedersi qualche giorno di raccoglimento, tra gli impegni cui lo chiamano musei, università e collezionisti di ogni parte del mondo. Come già la villa di Bernard Berenson, I Tatti, vicino a Firenze, anche questa potrebbe essere considerata soprattutto biblioteca e museo. Qui si trova una delle più preziose raccolte di iscrizioni romane. Qui si trovano marmi del periodo classico e rinascimentale, sculture e oggetti d'arte, pitture e pezzi unici che dalle ere arcaiche arrivano fino al barocco: una base ideale di studio e di ricerca, oggi per il proprietario e domani per tutti coloro che ne avranno seguito l'esempio [1].

Era, questo, un programma del Maestro purtroppo tradito e furono inutili, dopo la Sua morte, tutti i miei tentativi – e dei tanti che lo amarono e rispettarono - per salvare e valorizzare il patrimonio che per una vita Zeri raccolse, archiviò e fece conoscere al mondo: il suo sogno fu quello di creare a Mentana una Fondazione che supportasse la gestione dell’Istituto di alta specializzazione di Storia dell’arte Giovan Battista Cavalcaselle [2]. Fu vano e, oggi, biblioteca, cartelle e raccolta fotografica sono andati ad arricchire l’edificio storico e monumentale, già convento di Santa Cristina, fra via Santo Stefano e Strada Maggiore a Bologna. Disilluso, cinque anni dopo volli metterLo al corrente di quanto ormai si era perpetrato contro la Sua volontà con una lettera aperta per l’aldilà [3]:

Caro Professore, fra pochi mesi saranno cinque anni da quella mattina del 5 ottobre in cui Mario mi fece accorrere per l'ultima volta al Suo capezzale, giusto in tempo per sentirLe dire quel tragico: Dottore, muoio; furono le Sue ultime parole e a me non rimase che il triste compito di chiudere le Sue palpebre. Né mia moglie sentì più, da allora, quel come sta il mio dottorello? o il Suo scherzoso ah signò, è già uscito il mio dottoruzzo?
Non so se anche nell'aldilà si usa quel "lei" che, correttamente, abbiamo mantenuto in vita, per trentasei anni, nonostante i nostri piacevoli incontri letterari o le telefonate che giungevano la mattina alle sette, con la barzelletta proveniente da qualche parte del globo e i commenti su ogni vicissitudine più o meno subìta. Quel "lei" è stato necessario, qui, perché spesso non era facile, senza l'autorità del curante, farLe accettare alcune non gradite pratiche mediche; né Lei, d'altro canto e malgrado l'intensa frequentazione, ha mai tradito quella complice, amichevole intesa.
Per questo motivo, anche se il messaggio Le perviene per “via eterea”, non voglio tradire quel nostro modo di comunicare. Le invio, caro, vecchio amico, questa relazione per aggiornarLa su quanto sta accadendo dalle nostre parti.
Come Le devo dare ragione circa quei giudizi, nient’affatto benevoli, che mi esternava ogni volta che prendevamo il discorso riguardante la “casta” degli universitari. Ricorda, infatti, quelle cartoline che “quella signora” Le inviava, nell’arco degli anni Novanta del secolo XX, nelle quali La salutava “molto affettuosamente” ovvero quando Le scriveva da Londra “spero di rivederla presto, con molto affetto”? Per Sua fortuna, quella morte che ho giudicato scorretta per essersi presentata, a mio parere, troppo presto a chiederLe il redde rationem, Le ha invece evitato il dolore di rendersi conto che quelle “manfrine” erano solo parte di un piano diabolico, volto a un mostruoso raggiro: infatti tutti gli impegni, peraltro solennemente confermati davanti alla Sua Salma nel momento della cerimonia funebre al San Michele, da quegli stessi responsabili dell’università che avevano carpito la Sua buonafede, sono stati tutti “traditi.
Sono convinto che ormai lo sappia, poiché anche da lassù nulla può sfuggire al Suo “occhio”! Tuttavia reputo opportuno, qualora fosse stato distratto da qualche angioletta un poco sbarazzina, portarLa a conoscenza del fatto che oggi, dopo una lunga e inutile battaglia, quanto Lei ebbe di più caro, sia stato, dai Suoi “beneficiati”, già trasferito a Bologna: lo ha affermato a chiare note il rettore Calzolari che, dopo tali azioni, personalmente non reputo più affatto “magnifico”.
Comunque voglio precisarLe subito che hanno tradito le Sue volontà pure tutte le istituzioni statali che avrebbero dovuto vigilare, ognuna nei limiti delle proprie competenze, a cominciare dal ministro per i BB.CC. del tempo, il quale, davanti alle chiare istanze del prof. Antonio Giuliano presso l’Accademia di San Luca, arrecò l’affronto all’uditorio di abbandonare la sala nella quale si svolgeva la Sua commemorazione.
Quelli che davvero Le furono amici quaggiù, invece, posso testimoniarLe che non L’hanno tradita: hanno combattuto, tuttavia, una battaglia lunga, dura e, purtroppo inutile! Non L’hanno tradita, oltre ai Suoi familiari, Mina Gregori, Antonio Giuliano, Alvar Gonzàles-Palacios, Salvatore Settis, Fabrizio Lemme, Ksenjia Rozman, Andrea De Marchi, tanto per farLe qualche nome.
Personalmente, poi, ho combattuta una solitaria battaglia nella nostra Mentana, per quattro lunghi anni, contro quella insipienza che Lei, in vita, ha avuto modo di conoscere sin troppo bene; alla fine ho dovuto gettare la spugna.

A diciotto anni da quel tristo 5 ottobre 1998 di quella fucina di conoscenza a Mentana ormai resta, osso spolpato, solo l’immobile e i dieci ettari circa di terreno che lo circondano: fabbrica quasi fatiscente, roseto scarnificato, bosco divenuto selva, uliveto e vigneto preda dei cinghiali. E tuttavia di quel superbo apparato rimane ancora un’opera eccelsa, Il Lapidario Zeri. Ne parlò - nella Sala consiliare del Comune, in un lontano 1999 in occasione della presentazione del volume Nomentum, Lamentana, Mentana [4] - l’Accademico dei Lincei prof. Antonio Giuliano. Con parole accorate, ricordò all’uditorio che quel lavoro monumentale era stato oggetto di studio e pubblicazione da parte dell’Istituto Italiano per la Storia antica: in due volumi a cura del prof. Guido Barbieri e con Nuove acquisizioni dello stesso lapidario a opera di Maria Grazia Granino Cecere. Giuliano con grande determinazione, essendo presenti il sindaco e l’assessore alla cultura, disse [5]:

Qualsiasi reperto vive dove è nato; così può trasmettere qualche cosa per i futuro. Rischia altrimenti di essere un monumento inutile. Questo Zeri lo capiva molto bene. Lo capiva perché quando ha ricostruito quella straordinaria galleria epigrafica che è una delle più importanti del mondo, si giovò, murando le lapidi, di studiosi troppo presto dimenticati, tali che sono Barbieri per quanto concerne le epigrafi latine e Moretti per quanto concerne le epigrafi greche.

Ne spiegò pure il bagaglio culturale che consentì di concepire tanto straordinario progetto; disse infatti:

La cultura di Federico Zeri era talmente profonda e vissuta che è inutile qui parlarne in modo eccessivo. Conosceva soprattutto quelle fonti che sono rare, inconsuete: le fonti tardo-antiche, le fonti comprese fra Aureliano e Giustiniano, coperture sconfinate insomma. Conosceva a memoria molto di Procopio, uno dei testi più difficili che ci siano giunti dall’antichità: un greco orrendo a volte, anche pieno di contraddizioni interne. Mi sono chiesto troppo spesso di dove venissero certe conoscenze, dove le avesse apprese, probabilmente da Pietro Fedele, ritengo.

Su queste fondamenta sorse il monumento ancora presente a Villa Zeri. Qui, continuò il prof. Giuliano:

avere ricreato con una tessitura così paziente il mondo antico, la sua continuità nel Medioevo, il suo continuarsi nel Rinascimento e nell’età barocca è un fatto assolutamente straordinario. Ha creato uno dei grandi capolavori della cultura italiana che ha soltanto confronto con il Lapidario di Scipione Maffei a Verona. Io non capisco come una sola persona abbia potuto realizzare quanto ha lui realizzato qui. Si parla sempre di grandi fondazioni. La Biblioteca Berenson è banale, è una biblioteca specializzata in confronto a quella di Zeri. Si parla della Biblioteca di Longhi: è una biblioteca interessante per le guide delle città italiane minori ma non ha la consistenza di quella di Zeri. La Biblioteca di Giuliano Briganti è una biblioteca di Storia dell’arte. La Biblioteca di Zeri è qualcosa di ben più corposo perché contiene un modo di affrontare i temi culturali che non è stato degli altri. Insomma la vastità degli interessi lo obbligava a conoscere fonti scientifiche, fonti giuridiche, fonti letterarie per ciascuna delle quali doveva avere pari preparazione.

Concluse il tema con un’accorata perorazione alle autorità presenti a salvare con devozione e riconoscenza tanta opera:

È un fatto irripetibile mettere in opera per far comprendere la grandezza di un mondo attraverso il suo modo di scrivere, praticamente, più che di rappresentare. Fatto unico nella cultura italiana che soltanto un personaggio del suo livello poteva permettersi.

Questa breve nota ho voluto scrivere, ricorrendo il 18° anniversario della morte, per ricordare il grande e incompreso concittadino che, pur disatteso nelle sue aspirazioni, è ancora prodigo con il Comune nel quale volle vivere e concludere il suo “fenomeno” culturale.

Note:
[1] John Gruen, I collezionisti: Da qui all’antichità, Alle porte di Roma un tuffo nel passato, AD, n° 52, settembre 1985, pp. 182-190.
[2] Aa. Vv., Venti modi di essere Zeri, Umberto Allemandi & C. ed., Torino 2001, p. 130; lettera di Federico Zeri a Roberto Longhi del 07 gennaio 1965 della quale conservo in archivio copia fotostatica.
[3] Redatta a Fonte Nuova il 30 maggio 2003 e ovviamente inviataGli online.
[4] Salvatore G. Vicario (a cura), Nomentum, Lamentana, Mentana, IPZS, Roma 1999.
[5] Quell’orazione del 20 novembre 1999 fortunatamente l’avevo registrata e conservata fra i miei documenti.