La Teriaca e il suo potere curativo sono stati da sempre associati all’ingrediente che, fra i molti che la componevano, nel pensato dei più individuava il vero principio attivo: la carne di vipera. La leggenda vuole che Andromaco si risolse a introdurla nella ricetta base del Mitridato in seguito a una sconfitta della flotta navale romana a opera di Annibale che, per sopraffare il nemico, fece gettare sulle navi vasi contenenti vipere usati come arma letale. I generali romani chiesero allora all'Imperatore Nerone di far cercare un antidoto capace di intervenire in tutti i casi di morsicatura da animali velenosi e ciò portò Andromaco il Vecchio ad aggiungere la carne di vipera alla Teriaca pensando di migliorarne le proprietà alessifarmache.

Era convinzione degli antichi che la natura avesse in sé tutte le risposte alle urgenze che assillavano gli uomini, e che per ogni veleno di origine naturale esistesse un antidoto naturale. La vipera costituiva di ciò uno degli esempi più eclatanti: si riteneva infatti un tempo che nella vipera il veleno fosse contenuto in tutto il corpo e che dunque la vipera per poter sopravvivere avesse in sé l’antidoto al suo stesso veleno. Per questo motivo nella prescrizione della preparazione dei trochisci di vipera (ingrediente principale della Theriaca Magna di Andromaco), si raccomandava prima di tutto di porre le vipere vive in un pentolone caldo e di bacchettarle per eccitarle in modo da scacciare il veleno all’estremità del corpo, quindi di tagliarne la testa e la coda in modo da asportare le zone che avevano accolto il veleno stesso.

Ma prima bisogna dire à che fine i serpenti siano posti ne i medicamenti composti: et la vera cagione è la naturalità di tutte le cose; le quali per la somiglianza volentieri stanno insieme, et si vanno a trovare con un certo istinto di natura. Essendo dunque già nel corpo humano entrato il veneno; per poterlo smovere dal luogo dove forse sta fisso … hanno stimato i medici rationali che, mettendovi dentro un altro veneno, facilmente si smoverebbe per andare a trovare il suo simile ... Ma perché era pericoloso mettere un altro veneno nel corpo per discacciare il primo (percioché poteva accadere che mentre si cerca cavarne uno ve ne restano due) fu provvisto che potesse questo veneno, cioè le carni viperine, senza nuocere al corpo, esser preso per di dentro, e questo con la preparatione che si fa nel cuocere la vipera con quello studio che diremo, e anco per esser corretta da tante medicine ... (Altri controveleni, ndr).
B. Marantha, Della Theriaca e del Mithridato, 1572.

L’idea di introdurre una sostanza nell’organismo per provocare flussi attrattivi in direzione di una via uscita dal corpo, attraverso il vomito, le feci o il sudore, era uno dei cardini del procedimento terapeutico della teoria umorale dei quattro elementi, ippocratea e galenica. Il veleno nella carne della vipera attirava a sé l’altro veleno presente nell’organismo per la similitudine che hanno i veleni con quello, per poi vincerli con l’altra sua qualità alessifarmaca. Antonio de Sgobbis, ancora proprietario della speziaria all’insegna dello Struzzo in Venezia, nel suo Nuovo et Universale - Theatro Farmaceutico del 1667 parlando del sale viperino (una preparazione da lui ottenuta a partire dalla carne di vipera rifacendosi ormai però alle nuove direttrici dell’indagine spagirica di Paracelso), affermava che nel sale di vipera riusciva a raccogliere "il vero fonte de i spiriti vitali, il vero nettare della vita, e il pretioso e radicale balsamo della madre natura, per il quale la vipera ha forza di scambiare la sua pelle, e vivere tanto tempo inchiuso nella propria matrice della terra cibandosi del cibo ethereo onde derivano quelle insigni facultadi alexiterie, le virtudi balsamiche molto maravigliose contro li veneni letiferi".

Dunque il serpente nel suo lungo trascorso ctonio, sotterraneo, invernale, era capace di acquisire proprietà vitalizzanti, gli essalati più puri dello spirito balsamico della Terra, la Grande Madre che tutto nutre e può curare: primo figlio della Terra il serpente accoglieva in sé la forza infinita della vita e della morte, rigenerandosi senza morire pur possedendo il veleno che uccide. La carne di vipera non era usata però solo nella preparazione della Teriaca, numerose sono le fonti antiche che ne citano l'uso, raccolte in un curioso trattato della metà del Seicento, il Trattato degli effetti meravigliosi della carne di vipera di Carlo Panicelli. Secondo Plinio il primo ad aver usato carne di vipera per curare l’ulcera, creduta inguaribile, fu Antonio Musa, medico di Augusto. Galeno nei suoi appunti riferiva gli ottimi risultati ottenuti in casi di elefantiasi e lebbra con l'uso di vino in cui erano state fatte affogare delle vipere. Dioscoride, a sua volta, usava la carne di vipera cotta con olio, vino e aceto per chi aveva problemi di debolezza ai reni, ma anche per rischiarire la vista e per prolungare la vita, confortato in questo da Plinio che cita i Cimii e gli Etiopi come esempi di popolazioni ultracentenarie a dieta "viperina". Ricordiamo anche quanto detto su Mitridate del Ponto e i guaritori e sciamani delle zone interne montuose dell’Anatolia, in grado di usare il veleno di serpente per guarire le emorragie.

Francesco Redi, medico e filosofo della metà del 600, fu autore di uno studio sul veleno delle vipere in cui opponendosi a chi sosteneva che il liquido che si trovava nelle guaine dei denti delle vipere non era velenoso se non quando la vipera veniva irritata ("solo quando la sua immaginazione collerica alterava gli 'spiriti animali', che attraverso i nervi arrivavano ai denti e, tramite le loro cavità, avvelenavano la vittima") affermò sulla base delle sue Osservazioni intorno alle vipere, del 1664, che il veleno delle vipere non consisteva affatto "in un'idea immaginaria di collera indirizzata alla vendetta, ma bensì in quel liquor giallo che colava nelle guaine de' denti maggiori, o maestri". Nonostante l’approccio ormai scientifico stesse affermandosi, ancora ai suoi tempi la carne di vipera era considerata miracolosa. E se ne abusava. E' lo stesso Redi a raccontare di un tizio che aveva bevuto per quattro settimane a colazione polvere viperina stemperata in brodo di vipera, per pranzo minestra di pane inzuppato in brodo viperino - con cuore fegato e carne sminuzzata - accompagnando il tutto con vino in cui erano affogate delle vipere: lo stesso ripetuto a merenda e cena.

Dalla corrispondenza con la Signora di Sevigné si cita: "la signora di Lafayette prende brodo di vipera che le rende le forze… è alle vipere che devo la mia salute, esse temperano il sangue, lo purificano, lo rinfrescano. Ma bisogna che siano vipere in carne e ossa, non in polvere". Dalla lettera al figlio: "fatti venire delle vipere in casse separate e prendine due tutte le mattine, decapitate, spellate, tagliate a pezzi, per farcirne con le stesse un buon pollo. L’effetto sarà miracoloso".

Amuleti venivano composti con polvere di testa di vipera, avvolta in nastri e tenuti al collo contro il gozzo e il mal di gola (Donzelli, Teatro farmaceutico Dogmatico e Spagirico, 1677). Rinomati erano anche i cordoni viperini che si preparavano a Venezia e che erano costituiti da cordoni di seta imbevuti nel sangue di detto animale; portati in dosso erano ritenuti infallibili contro l'angina e l'erisipela (un'infezione acuta della pelle). Larga esportazione se ne faceva specialmente in Austria e in Germania.

Nel periodo di maggior fioritura dell'alchimia, con il fegato e il cuore di vipera, disseccati e polverizzati, si facevano i bezoar animali, usati come rimedio contri i veleni, il vaiolo, le febbri maligne e lo scorbuto (Dizionario dei medicamenti, 1827). I bezoar costituivano una delle tante stravaganze cui la medicina antica ci ha abituato. Erano dei conglomerati di materiale vario (osseo, calcareo, composti salini bianchi o bigi, formati ora di carbonato di calce, ora di fosfato ammoniaco-magnesiano, oppure tricologici) che si formavano all'interno dell'intestino di certi animali, specie ruminanti, ai quali veniva riconosciuto potere terapeutico eccezionale contro i veleni e varie altre patologie. Queste "pietre" non facevano parte della farmacopea tradizionale occidentale di derivazione greca, ma risultavano di tradizione orientale: per questo molti ricercati, erano spesso inclusi in preziose castonature o cornici ed erano esposti in musei e _wunderkammer _da re e papi. Il nome stesso, di origine arabo-persiana, passò nel tempo a indicare un controveleno in generale.

Così come la Teriaca quale medicamento globale andò soggetta, con il passare del tempo e l’aumentare delle conoscenze scientifiche, a critiche e smentite, così la carne di vipera e il suo impiego terapeutico venne posto in dubbio tanto da non essere più impiegata in farmaceutica. L'uso del veleno di serpente venne sistematicamente studiato dal 1827 dal dr. Constantin Hering, ma solo nel 1937 il farmacista-biochimico tedesco Waldemar Diesing (1902-1992), dopo lunghe ricerche riuscì a liberare questi veleni dalla loro struttura proteica (quella che produceva gli effetti nocivi-velenosi), lasciando inalterate le altre sostanze del veleno, specie gli enzimi, di cui sono molto ricchi e attraverso i quali è possibile intervenire sui processi metabolici delle cellule.

Testo di Annalisa Cantarini

In collaborazione con: www.abocamuseum.it