È una bella responsabilità fare un rendiconto di Cinema e Donne, alla sua trentottesima edizione. Perché nei cinque giorni dei primi di novembre Paola Paoli e Maresa D'Arcangelo hanno proposto, col loro infaticabile fervore di ricerca, tantissimi film, le ultime novità e insieme film di registe donne ripescati dall'oblio, la cui unica pecca è la poca o inesistente distribuzione. A scegliere di quali film parlare ci vengono in aiuto proprio le organizzatrici, che conferiscono premi - quest'anno in numero superiore al passato - rendendo così meno arbitrario soffermarsi a descrivere un film piuttosto che un altro, col rimpianto di trascurare bellissimi film che spesso non varcano i confini del festival.
Il titolo, Sex and story, ci dice quante storie diverse suscitano l'interesse di quelle registe alle quali sono dati i mezzi per fare un film, e insieme ricostruisce la storia di tante donne del cinema, dai primi anni del '900 ad oggi. La rassegna si è svolta al teatro della Compagnia, riaperto in occasione della 50 giorni dopo un lungo periodo, e pervaso da un'atmosfera ospitale e, insieme, di luogo di passaggio per altre mete, opera dell’arch. Natalini, prestigiosa nella semplicità delle linee progettuali e nella raffinatezza dei dettagli, con un bar ben fornito e alle pareti poster inediti e curiosi, tipo quello per la versione americana di Matrimonio all'Italiana.
IL X° Premio Gilda Attrice va a Olivia Corsini in Olmo e il gabbiano, di due registe, Petra Costa e Lea Glob, una brasiliana e una danese, e in cui lei, oltre a recitare la parte di una donna incinta (e mentre recita rimane incinta davvero), collabora alla sceneggiatura. Il suo compagno nel film, Serge Nicolai, lo è anche nella vita. Il film si muove con destrezza mostrando sequenze di teatro, di preparazione dello spettacolo e di vita di tutti i giorni di Olivia e Serge. Il montaggio sapiente intervalla le une con le altre, con il risultato di trasformare in fiaba la vita vissuta e recitata. Ma è soprattutto il racconto della condivisione della maternità che Olivia instaura col suo compagno già dalla fase della gestazione, l'elemento innovativo del film, che mostra il radicale cambiamento nel rapporto di coppia, e la maestria di entrambi nell'accettare di modificarlo.
Il premio Gilda Doc va a Mylène Sauloy per il suo documentario Kurdistan, la guerre des filles, appassionato reportage su giovani donne che imbracciano il fucile per difesa. La regista mostra come questo cambi i rapporti con la loro società, a supremazia maschile. Kurdistan è uno dei molti lavori di Mylène, che corre per il mondo a testimoniare situazioni di guerra, incurante del pericolo.
Il film prescelto per il premio Gilda film è Seaside walking di una giovane regista olandese, Mirjam de Vith. Partendo da un funesto fatto di cronaca, l'incendio di una discoteca, fronteggia il dramma nella relazione fra due amici, entrambi scampati alla morte, ma con esiti opposti. In stile asciutto tratta di quanta umanità e impegno richieda l'accettazione di un destino diverso da quello del tuo amico. Non è mancato neppure un premio Gilda antiviolenza, ultimo nato di fronte alle derive drammatiche di oggi. Ha vinto un cortissimo, Forse non lo sapevi..., sintesi poetica contro la barbarie, di Anna e Adriana Cappelletti.
Margarethe von Trotta, assai apprezzata per il lavoro trentennale con cui ha affrontato puntualmente i tanti cambiamenti nella politica e nel privato, riceve in questa sede il premio alla carriera, sotto forma di Sigillo della Pace, un riconoscimento del Comune per la rilevanza artistica e culturale della sua opera. Ci ha anche portato in anteprima il suo ultimo film, Die abhandene welt che aggiorna il problema della sorellanza, già oggetto, più di venti anni prima, del suo famoso e raro film Sorelle, anch'esso in visione al festival.
Della stessa onorificenza, nel campo del Cinema documentario, è stata insignita Paola Scarnati, direttrice de l'Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico (Aamod) di Roma. È a questa importante istituzione e all'opera di conservazione attuata negli anni che si deve parte degli interessanti docufilm storici visti quest'anno. Essere donne del '65, girato da Cecilia Mangini, documenta il rapporto donna-lavoro negli anni '50, mettendo in luce che il lavoro per le donne di quegli anni non era sinonimo di emancipazione. Senza rossetto del 2016 di Emanuela Mazzina e Silvana Profeta ricostruisce le reazioni delle donne nel '46, per la prima volta chiamate a votare. Femminismo! del 2016 vede Paola Columba intervistare una carrellata di donne, dagli anni '70 alla generazione di You Tube, per capire, anche con l'aiuto di materiali dell'Archivio Aamod, se il rifiuto di considerarsi oggi femministe possa essere superato con la conoscenza di un pezzo di storia costellata di atti di coraggio che hanno portato, negli anni '70, le femministe a ottenere libertà che alle giovani oggi sembrano ovvie. Paola Columba ha lavorato a questo documentario con grande passione, anche per invitare questa generazione a vegliare su quelle conquiste, perché oggi sono in pericolo, come dimostra la documentarista fiorentina Silvia Lelli, antropologa, che ha filmato donne contemporanee vittime di violenza e disposte a parlarne. Con il materiale ha costruito il seguito di Violenza nascosta, presentato lo scorso anno. Questa volta si tratta di Violenza svelata, documentario che parla di violenze domestiche palesi, del modo in cui vengono vissute, e del riscatto che solo la consapevolezza di aver subito violenza rende possibile. La possibilità che lei offre con le sue interviste va nella direzione di aiutare le donne maltrattate, mentre la visione del documentario aiuta coloro che non riescono a parlarne, a prendere coscienza di essere vittime, il primo passo per ribellarsi.
Terminiamo parlando di un film che, sebbene non a lieto fine, è la storia di una grande donna. Tornando indietro all'800, Die Hebamme, di Dagmar Hirtz, montatrice di Margarethe von Trotta, ci porta in un paesino d'alta montagna del Sud Tirolo, a seguire le vicende di una levatrice bravissima, formatasi in un ambiente bigotto insensibile alle sofferenze delle donne, in particolare quelle incinte. Animata da un potente desiderio di proteggere madre e bambino nel difficile percorso del nascere, è ostacolata da superstizioni che mettono in pericolo lo svolgimento del parto. I nemici sono, da un lato la medicina, in mano a medici maschi che non si peritano a eseguire cesarei non necessari, letali, per fare pratica sul corpo delle partorienti; dall'altro i preti, che sono autorizzati a interferire nei parti difficili, obbligando la levatrice a battezzare il nascituro ancora nel corpo della madre, malgrado questo porti alla morte, per i germi introdotti con l'acqua benedetta non sterile. Siamo prima della scoperta che le puerpere muoiono per infezioni indotte, ma è l'attenta osservazione della levatrice a fare capire che la pratica religiosa obbligatoria è distruttiva. La donna finisce stritolata dalle istituzioni, per il suo rifiuto di infettare, ma soprattutto perché rea di essere più capace di un medico di far partorire una donna, basandosi solo sulle sue doti di osservazione e grande sensibilità.