La nostra lingua cela la storia della civiltà e il latino che ormai si considera lingua addirittura “morta” ci aiuta a ricostruire il passato perché parlando di linguaggio il presente, come dicono i rigorosi studiosi della materia, non basta. A volta usiamo delle parole considerate fossili perché in disuso o perché apparentemente vetuste. Invece questi termini sono più che vivi e la rivendicazione da parte di pochi della nostra lingua madre ha un grande valore che andrebbe riscoperto tra il grande pubblico.
Non va confusa la comunicazione con il linguaggio. La parola va recuperata, il classico, il greco, il latino ci riportano al significato originario, va recuperata la cura della parola! Perché non conoscere il nostro passato forse è la cosa più inattuale che potremmo fare. Un esempio eclatante è proprio il termine Farro. Avete mai usato la parola “farraginoso”? Facendo un indagine scopro che è piuttosto utilizzato nella lingua parlata di oggi ma nessuno, credo, ricordi che la sua etimologia è lampante. Significa “confuso, pasticciato, non chiaro” e deriva da farrum proprio perché con questo cereale, già nell’antichità classica, i romani facevano il loro piatto più noto: la zuppa di farro, una miscela che univa anche legumi minori e altri ingredienti a seconda dell’epoca e delle popolazioni che avevano adottato questa pietanza, il pulmentum.
Se esistono nel linguaggio parole dimenticate che invece arricchiscono il nostro vocabolario e ci rendono spesso più gradevoli nel parlare, allo stesso modo in natura esistono dei grani dimenticati che riscoperti e ricoltivati aumentano la biodiversità, cioè il prezioso patrimonio del germoplasma mondiale. Il farro grande ad esempio è un caso di ampio interesse proprio per l’agricoltura del futuro, dimenticato forse per centinaia di anni perché soppiantato dai famosi grani di forza, quelli molto ricchi di glutine e ideali per la panificazione, oggi però purtroppo responsabili delle diffusissime intolleranze alimentari e della celiachia. La specie Farro, da cui prende origine il termine farina [lat. farīna, der. di far «farro»], comprende tre specie. Il farro piccolo o Triticum monococcum L., il farro medio o Triticum dicoccum L. e il farro grande o Triticum spelta L..
Studi fatti su reperti archeologici testimoniano che i primi cereali coltivati nell’età natufiana, circa 10.000 anni fa, e secondo altri nel tardo paleolitico, 12.000 anni fa circa, furono verosimilmente farro e orzo. Si ipotizza quindi che le prime coltivazioni di farro possano risalire a X-IX millennio a.C. in Iraq, Siria, Turchia, Iran e Palestina e che da lì si sia diffuso verso l’Europa abbastanza velocemente. Molti botanici e genetisti credono che Triticum spelta L. abbia origini primarie rispetto agli altri frumenti. Era questa la prima specie di frumento esaploide (perché ha 42 cromosomi cioè 6 volte il numero base x) e, come risultato di mutazioni, dette origine a tutte le altre specie, incluso il grano più comune.
Il farro è probabilmente l’alimento più diffuso nell’impero Romano. Plinio il Vecchio (23 – 79 d.C) nella Naturalis historia afferma “Pulte non pane vixisse longo tempore Romanos”. La pietanza tipica del romani, chiamata puls, era una farinata costituita da farro macinato intriso a legumi cotti nell’acqua. Anche il sacerdote padovano latinista Egidio Forcellini (1705-1768) nel Lexicon spiega: “cibi genus ex farre, aut leguminibus in aqua coctis”, “Polenta differ a pulte, tum quia puls Latina vox est et Italiae, polenta Graeciae”. Altro termine latino da ricordare è confarreatio che indica le antiche cerimonie romane nuziali in cui la coppia si cibava davanti al ministro della chiesa del panis farreus [pane di farro] che suggellava la loro unione.
Il farro era l’alimento dei legionari e l’imperatore Flavio Claudio Giuliano (331-363 d.C.), detto Giuliano l’apostata, si alimenta di pulmentum, questa sorta di zuppa di farro mista a cereali e legumi diversi, per dare esempio ai soldati romani che dovevano avere con sé per essere in forze e pronti a combattere; una sorta di razione K dei soldati americani durante la Seconda guerra mondiale. Da questo termine che poi derivò l’aggettivo pulmentarii per definire i romani che oggi si direbbero “polentoni”, anche se poi i vari pultes si raffinarono e assunsero diverse varianti con l’aggiunta di farina, formaggio miele e uovo. Puls di farro rimase sempre piatto nazionale anche se successivamente intorno al 150 a.C. i romani conoscono la focaccia o il pane greco e imparano a panificare. Il termine polenta rimane nella dieta ma poi verrà assunto anche in tutta Italia per indicare un alimento liquido costituito da farina di cereali o legumi sciolta nell’acqua.
Dal periodo romano fino a tutto il Medioevo l’agricoltura mantiene le caratteristiche descritte da Columella (4 – 70 d.C.), scrittore studioso di agricoltura, e Varrone (116 a.C.-27 a.C.); si coltivavano soprattutto farro, spelta, frumento, orzo ma anche miglio e panico, mentre l’avena era considerata mala erba ed era usata dai Germani, la segale dai taurini ai piedi delle alpi, il sorgo era usato prevalentemente per gli animali. Oggi un ambizioso progetto portato avanti dal Comune di Sovizzo, piccola cittadina in provincia di Vicenza stimola la comunità tutta a riscoprire le proprie origini rurali avendo scoperto che in tutto il Veneto fu coltivato proprio questo cereale importato durante la discesa di alcuni popoli nordici: i Cimbri. Questi ultimi erano popoli provenienti dalla Germania che migrarono in varie epoche – già a partire da quella romana – in tutta Europa. Tutta l’Italia del nord ha testimonianze della loro integrazione con le popolazioni autoctone.
Da un interessante pubblicazione locale emergono alcune notizie sulla coltura agricola della zona del vicentino “Nel 1300 l’agricoltura aveva l’assetto dei due secoli precedenti: formento, segala, spelta [ovvero farro grande], miglio, sorgo (saggina o sorgo rosso) […] castagne, fichi e olio d’oliva”. Tanti i suoi pregi anche come coltura. La coltivazione del farro richiede bassi input dal punto di vista delle concimazioni, perché ha una buona rusticità, resiste alle malattie e può essere coltivato in terreni di alta pianura e collina, pietrosi e poveri. Resiste bene agli inverni più rigidi in condizioni di limite di aridità e umidità. Compete bene nei confronti delle erbe infestanti e resiste bene alle comuni malattie dei frumenti.
E così il farro grande – consigliato anche nelle ricette curative per le donne nel XII secolo dalla grande medichessa Ildegarda di Bingen – oggi viene coltivato da agricoltori, nei terreni comunali; della sua farina se ne fanno dolci, pane e ottime pizze, in un sistema di filiera corta che sarebbe auspicabile anche in altre regioni italiane. Proprio Ildegarda di Bingen, riscoperta non solo come studiosa dell’alimentazione ma anche della cura dello spirito attraverso stili di vita sana per il corpo e per la mente, afferma che “il farro è il migliore dei cereali: riscalda e lubrifica, è leggero e molto nutriente. Chi se ne ciba avrà muscoli forti, il sangue sano, sarà allegro e gioioso”. Il farro spelta in particolare è un'eccellente fonte di fibre e vitamine del gruppo B, contiene dal 10% al 25% di proteine in più rispetto al frumento. È un'eccellente fonte di riboflavina, una vitamina necessaria per il corretto metabolismo energetico del sistema nervoso che sembra, pertanto, in grado di ridurre la frequenza degli attacchi di emicrania. L'elevato contenuto di fibre solubili presenti nel farro spelta ha inoltre il vantaggio di ridurre la colesterolemia. Insomma rispolveriamo i detti degli antichi, come quello del greco Ippocrate padre della medicina: “Che gli alimenti siano i vostri rimedi”.