Così tutti i giorni vado in bicicletta e per arrivare a quella che è la mia strada, devo attraversare una, due, tre circonvallazioni. E tutti i giorni rischio la vita.
Ci sono relazioni che si muovono liberamente anche fuori dal tempo. La mia compagna di viaggio, nel rischio e nella visione, è la badessa Ildegarda di Bingen vissuta nel dodicesimo secolo. Ho incontrato la sua opera nel 1993. Non tutta l’opera d’un colpo, naturalmente. Mi è stata sufficiente la sua immagine dell’uomo al centro dell’universo, realizzata circa trecento anni prima di quella di Leonardo da Vinci, per ricevere quel contraccolpo che richiede sempre il tentativo di una risposta. Sono andata in libreria e ho comperato tutti i libri che parlano della sua vita, delle sue opere e delle sue erbe medicinali. Ritrovo in lei una fonte inesauribile di suoni, di echi, di richiami che mirano a una verità che si trova al di là della contingenza spazio-temporale. Ho accolto la sua vita e le sue parole e questo incontro/confronto lascia nelle mie giornate un segno profondo. Mi è diventata necessaria. Ho iniziato così a vivere e a lavorare con lei. Le sue idee sull’essere, sul divino, sulla natura, sulla ragione, sulla bellezza sono rese con potente immaginazione poetica e sono governate da un pensiero filosofico libero e lontano dalle scuole dell’epoca. C’è poi l’amore per il corpo. Il corpo, “il microcosmo”, suscita in lei un interesse pari a quello che prova per l’animo umano. Non c’è separatezza. Per la salute del corpo, nel suo insegnamento ci sono filosofia, scienza, poesia, musica, danza, cibo, armonia con il macrocosmo, cura con le erbe.
Le sue parole e la sua vita comprendono e ammoniscono anche il nostro agire, e se ci sarà futuro, lei arriverà anche lì. Per non essere confusa con quelle creature dai sensi potenti che sentono voci, vedono figure del passato - hanno apparizioni, insomma - dirò semplicemente che in un certo punto del tempo e dello spazio ci siamo incontrate oppure che il nostro incontro è stato inevitabile. Mi sono state sufficienti le letture per instaurare con lei un rapporto di grande condivisione, a tal punto intenso da provare a volte una sorta di sovrapposizione. Con la semplicità della sua saggezza mi prepara la strada. È lei che mi dice ciò che ora è bile scintillava come cristallo, ciò che ora è melanconia brillava come un’alba… poi lo splendore dell’innocenza si oscurò… e gli occhi divennero ciechi. Così risponde alla mia ben radicata convinzione che si vada a tentoni in reciproche cecità.
In questo momento, mentre vado in bicicletta, la categoria più accecata di tutte mi sembra quella degli automobilisti. Loro vanno. Vanno veloci come il vento. E più veloci vanno, più accecati diventano. Non vedono semafori, non vedono strisce pedonali e soprattutto non vedono me. Col passare del tempo sono diventata invisibile: se c’è una portiera da aprire, la si apre quando passo io; se tento di attraversare, sempre sulle strisce pedonali, gli automobilisti regolarmente accelerano. Di fronte alle strisce pedonali vengono presi da raptus omicida. Negli attimi in cui aprono gli occhi e guardano, confondono le piste ciclabili con parcheggi. E mentre con quel loro sguardo assente non mi vedono, vanno. Ma dove andranno con il loro piede incollato all’acceleratore? Perché puntano pedoni e ciclisti con tanta determinazione? Quando entrano nella loro preziosa scatolina a quattro ruote devono subire una sorta di mutazione genetica e diventano feroci predatori. Inutilmente vesto abiti molto colorati. Tra me e loro la battaglia è vinta. Vinta da loro. Li stramaledico. A cavallo del mio destriero - la bicicletta - perdo ogni ritegno e vomito insulti e anatemi. Impreco. Come nelle fiabe, dalla mia bocca escono rospi. Tra me e gli automobilisti è guerra. Ma sono figura armata solo di parole contro ruote potenti che masticano asfalto in attesa di divorare me.
Ed ecco così la cronaca nera del percorso che devo compiere per arrivare alla mia strada. Viale Randi è la prima arteria ad alta velocità che devo attraversare; è la più vicina alla città, a due passi dal centro storico. Sono concentratissima perché qui gli automobilisti vanno veloci come al circuito di Monza. Per fortuna c’è il semaforo, altrimenti sarei ancora lì con la bicicletta a lato, in attesa di attraversare. Il semaforo, per me, raramente diventa verde; in compenso, a metà del tanto atteso attraversamento, diventa rosso. Approdo così in quella che chiamano pista ciclabile. A Ravenna le piste ciclabili si fanno, però subito dopo vengono abbandonate al loro destino. Anzi, appena fatte, arrivano operai a trapanarle per interrare tubi. Poi ricoprono di nuovo e così la pista è tutta una toppa. Questa è frequentatissima da motori e motorini, però la sua pericolosità è dovuta alle automobili che entrano ed escono dagli edifici che si affacciano sulla pista stessa. Le auto hanno lo stop, ma ugualmente vanno. E le costruzioni, anche in viale Randi, aumentano a vista d’occhio.
Ieri tra l’edificio dei Vigili del fuoco e le Poste c’era un campo di papaveri. Era un campo rosso fuoco, un incendio dell’anima. Ora al suo posto c’è il solito mostruoso palazzone pronto ad accogliere indistintamente tutto. La bellezza di quel campo andava protetta, ma Ildegarda mi suggerisce ancora che gli occhi divennero ciechi. Nonostante tutto, la pista ciclabile si allontana dalla città e costeggia la seconda cintura cittadina. Qui il pericolo è di altro tipo: tra me e il continuo, infinito serpentone di automobili, niente. Niente, anzi peggio di niente, una finzione - una presa in giro - ancora più irritante del niente, perché in realtà qualcosa esiste. Esiste, come barriera, tra me e il serpente che scarica i suoi fumi, una specie di stretto marciapiede con smilzi alberelli. Queste misere creature più che crescere in altezza e larghezza si sviluppano sottoterra perché fuori all’aperto non c’è spazio.
Sottoterra avviene la rivolta degli alberi. Sotto sotto c’è un gran fermento: radici che vanno e vengono, radici che premono in alto, in basso. È vita brulicante. Gli alberi hanno tutto un loro mondo che vive in profondità. Fuori niente, nessun segno di vita, mentre l’asfalto rivela tutta la potenza del movimento interno: infatti si frantuma, si spacca, si avvalla, si alza. Procedo zigzagando. Questo tratto di pista è frequentato da mamme con bambini, anziani, gente che passeggia, ciclisti. Forse faremmo meglio a rimanere ben chiusi in casa. “Non respirare, tieni la bocca chiusa” così dice la giovane mamma alla bambina. Ecco come siamo ridotti: è pericoloso respirare. Il polo industriale, per favorire le nostre “comodità”, continua a produrre i suoi veleni che inquinano oltre misura l’aria che respiriamo. Esigenze pubbliche e voglie private si incontrano e formano la coppia perfetta. Perché questa accoppiata funzioni è necessario solo che l’uno, il consumo, acquisti l’altro, il prodotto. Senonchè questa unione, prevedo, non potrà durare a lungo. Intanto ha prodotto il mostro: la bestia furiosa che tutto distrugge. Contamina l’aria. Ma siccome l’aria, così a occhio nudo, mica si capisce tanto se è pura o inquinata, è meglio non pensarci, è meglio essere ottimisti. E allora, tutti felici e contenti assistiamo all’avvento di nuove industrie che danno lavoro a quelli che poi ci moriranno. E allora, sempre tutti felici e contenti con il grosso carico - pubblico e privato - velocemente, efficientemente, si va. “Ma dove andate?”, “Perché, tu non vieni?” “Io no, io vado in bicicletta. Mi sposto di poco; rimango nei paraggi”. Il nostro futuro: tutti sottoterra come già fanno gli alberi. Come una fuggitiva, braccata da tutte le parti, senza pietà, corro via. Ildegarda mi dice che l’anima quando il corpo è oppresso da un’aria pesante fa fatica a respirare e muore.
Corro via. Vado più a nord, ma potrebbe essere anche più a sud, o est, o ovest - sono priva del senso di orientamento - e raggiungo la chiusa di San Marco. Guardo dall’alto la turbolenza dell’acqua. “Mi butto o non mi butto?”. È un pensiero conseguente al caos appena superato “Mi elimino prima che lo facciano le polveri sottili e gli automobilisti?”. Dopo la curva ecco, finalmente, la mia strada. Ora Ildegarda mi sussurra Il mio spirito nella visione sale in alto fino alle stelle, in un’aria diversa, si allarga, si dilata nelle terre, alto sopra le differenti regioni, in luoghi lontani da dove resta il corpo. Nella visione vedo diversamente e guardo le vicende mutevoli delle nuvole e delle altre creature. Se sono fortunata percorro dieci chilometri senza incontrare un’automobile. A volte incrocio altri ciclisti e persone che corrono o camminano. Ci scambiamo un saluto e in questo gesto c’è una sorta di complicità che rende più gradevole l’andare. Seguo l’argine del fiume. Quello che mi incanta è lo straniamento del paesaggio. Come accade a Ildegarda anche il mio sguardo, in un’aria diversa si dilata nelle terre in luoghi lontani da dove resta il corpo.
Questo del 2002 è un inverno gelato; è da un mese e mezzo che siamo sottozero. E la neve esiste e resiste. Alla mia sinistra i campi innevati sembrano lenzuola bianche, immense, distese a perdita d’occhio. Le vecchie case, tra neve e fumo di camini, sono corpi palpitanti stretti in un forte abbraccio. Alla mia destra il fiume è ghiacciato. Pattini d’argento, io vi vedo, veloci e silenziosi. Ciò che osservo mi ricorda un paese nordico. Sono in Olanda. Lungo l’argine del fiume - a Ravenna - sono in Olanda. Questi e altri pensieri corrono veloci nel vento, nel sole, nelle case, nel fiume dalle acque gelate, mentre con lo sguardo tento di raccogliere proprio tutto quel che vedo. Ma tutto e niente, in questo mondo, sono parole prive di senso, infatti i miei occhi, ogni giorno, continuano a vedere nuovi paesaggi. Nelle giornate limpide, le montagne sembrano vicine e penso, “proseguo, oggi arrivo in collina”. Ma dovrei attraversare altre circonvallazioni e altre strade piene di automobili. Qui invece quasi nessuno disturba il mio cammino. Questa strada è l’espressione massima che io possa dare alla mia visione di libertà: visione carica di beatitudine per solitudine e bellezza.
In estate m’incanta il tramonto nella valle. Il cielo e l’acqua e la vegetazione acquistano toni potenti, maestosi, in antitesi alle vedute sfumate del paesaggio ravennate. Sono atmosfere africane. Sono quelle atmosfere extracomunitarie che qui “a casa nostra” ci fanno paura e così insensatamente respingiamo. Sono atmosfere da terzo mondo. Sono trionfi dello sguardo. L’Africa l’ho vista solo nei film e alcuni paesaggi e tramonti erano simili a quelli della mia valle: un paesaggio straniero nella mia terra. Questi sono gli scherzi della visione nella quale Ildegarda mi ricorda che tutte le cose le vedo con gli occhi interiori del mio spirito. Ma sono sveglia con tutto il corpo e la mente. Quando guardo, ogni tristezza e ogni angoscia scompare. Ritorno lungo l’argine del fiume. In realtà due sono le mie strade: quella invernale percorre l’argine del fiume e quella estiva va al mare. Percorro le due strade con la stessa bicicletta. Lei - la bicicletta - è il mio docile destriero. A volte ho l’impressione di andare a cavallo. Certo. A cavallo della mia bicicletta. Che è una bicicletta apparentemente “comune”. In realtà è una creatura di antica saggezza. È la mia casa ambulante con due tasche laterali, con cestino, e a volte, il seggiolino per condividere un tratto di cammino con Natalia o Federico. È anche capace di inaudite metamorfosi. Si fa pulmino quando devo distribuire sporte di cibo; diventa un’efficiente bicicletta quando mi conduce nelle “mie” strade. Ugualmente mi sorpassano tutti, ma io ho le ossa fragili e non devo correre, non devo cadere. E lei, in effetti, è un po’ più lenta e pesante di una normale bicicletta. A volte più vicina al trattore che a una scattante bicicletta. Ma è lei che tutte le mattine, alle 11, decide dove, per me, è ancora possibile andare. Ildegarda vola alta. Non la vedo, ma sento le sue parole. Con due ruote, manubrio, sellino, pedali tra di loro uniti da congegni geniali, la mia bicicletta è invece la personificazione della concretezza e per sublime coerenza mi conduce verso la libertà in tempi e spazi certi.
Proprio così: in questo stato di libertà avviene una sorta di sovrapposizione. I miei pensieri coincidono con quelli di Ildegarda. Insieme cadiamo dentro lo stesso tempo e lo stesso spazio. Ildegarda io e la bicicletta formiamo un’unica entità nella quale l’invisibile e il visibile sono la stessa cosa perché per Ildegarda tutte le cose sono in parte visibili e in parte invisibili. Il primo aspetto è debole, mentre quello invisibile è forte e vitale: è questo l’aspetto che l’intelletto umano desidera conoscere, proprio perché non è in grado di vederlo.
Dal volume: RAVENNA ravenna, Editrice dell'Altritalia, Roma, 2011. Foto: Andrea Zecchini