Quando il Frizione Sextet è salito sul palco del Serravalle Jazz, nel terz’ultimo giorno d’agosto, probabilmente pochi tra il pubblico conoscevano i componenti del gruppo, a parte Romano Pratesi, che con il suo sax e il suo clarinetto basso era già stato al festival con altre formazioni. Sembrava strano, dunque, che forse per la prima volta il direttore artistico Maurizio Tuci avesse affidato una serata intera a una sola esibizione. Alla fine della quale, invece, tutti i presenti hanno continuato a chiedere bis, a ringraziare i musicisti, a guardarsi tra di loro con l’aria soddisfatta (direi al limite dell’estatico se non rischiassi di calcare sull’enfasi), e comprare i dischi (come si faceva nel Novecento) al banchetto sistemato accanto al palco.
Qualche giorno prima avevo intervistato il pianista del sestetto, Stéphan Oliva, che mi aveva detto: “Suoneremo tutta musica originale, e siamo molto diversi fra noi, quindi verrà fuori una serata eclettica, in cui emergeranno le nostre personalità”. È andata così, ma allo stesso tempo abbiamo assistito a un interplay e un affiatamento difficile da ottenere quando, come in questo caso, si vara una formazione del tutto nuova appositamente per esibirsi in una manifestazione, e poi (probabilmente) scioglierla. C’è una spiegazione: i sei strumentisti sono arrivati nel piccolo e bellissimo borgo toscano con un giorno d’anticipo, si sono chiusi in un’aula di una vecchia scuola in un pomeriggio bollente, e hanno provato per sei ore di fila. La mattina dopo ci sono tornati e hanno suonato fino all’ora di pranzo. Poi, nel pomeriggio, hanno fatto ancora qualche pezzo durante il soundcheck.
È stato quando ho saputo di questa cura extra-ordinaria che ho cominciato a immaginare una serata diversa dal comune, e ho avuto ragione. Dopo un avvio con Oliva da solo al piano, che ha dedicato la sua performance a Franco D’Andrea, che aveva aperto il festival la sera precedente, e a Renato Sellani, a cui era legato il programma di quest’anno, abbiamo goduto di una seconda parte in trio con il batterista Christophe Marguet e il bassista Claude Tchamitchian, finché la band si è completata con i fiati di Romano Pratesi, a cui va anche il merito di aver ideato e realizzato il progetto, la chitarra di Hasse Poulsen, e il trombone di Glenn Ferris, forse il più conosciuto dei sei per aver collaborato con grandi jazzisti e aver spaziato anche in campi limitrofi, per esempio girando in tour con Frank Zappa.
Ogni brano presentato offriva un punto di vista e una sensibilità differente, e ogni musicista di metteva al servizio della musica degli altri completandola e dandole una luce che quasi certamente non corrispondeva esattamente a quella degli spartiti. Lo stesso Oliva mi aveva detto: “Naturalmente oltre alla musica scritta lasceremo grande spazio all’improvvisazione: nessuno di noi concepisce il jazz senza la possibilità di improvvisare”. Per questo Poulsen con la sua chitarra è passato dal delicatissimo e discreto lavoro di cesello alle sfuriate rumoristiche, munito di archetto, deciso a usare il suo strumento come una percussione o spinto a cercare i suoni meno consueti per un chitarrista jazz (fino a rompere e cambiare in tempo reale quattro corde).
Il fulcro della band probabilmente è stato Tchamitchian: le sue capacità tecniche sono apparse subito notevolissime, ma a colpire è stata la sua capacità di guidare il complesso, di legare i contribuiti individuali, di tessere insieme a Oliva e Marguet l’ordito sul quale gli altri, a cominciare da uno strepitoso Ferris, molto evidentemente entusiasta della collaborazione, costruivano trame variopinte e sempre interessanti. “Il primo incontro che ho avuto con il jazz è stato un concerto di Bill Evans” aveva detto ancora Oliva. Già questo basterebbe per concludere che evidentemente c’era un destino segnato per il pianista francese, ma il seguito era “Quella sera eseguiva un programma classico, e io non ebbi l’impressione di sentire qualcuno che suonava Chopin, ma di sentire Chopin al pianoforte che eseguiva la sua musica”.
Lontani da quel tipo di repertorio, eppure inevitabilmente legati alle proprie radici musicali europee (salvo Ferris, californiano), i membri del Frizione Sextet hanno dimostrato quanta identificazione ci sia tra loro e la tradizione jazzistica nell’ultimo bis, l’unico brano non originale di tutta la serata. Ecco, in quella versione rispettosa e allo stesso tempo luminosa e rinnovatrice di “St James Infirmary” (registrata da Louis Armstrong nel 1928) c’era la rassicurazione sul fatto che il jazz, certo non sempre in perfetta salute, è, nella sua migliore incarnazione, una combinazione immortale tra passato e contemporaneità, possibilmente con un occhio puntato al futuro.