Ettore Bernabei, morto nei giorni scorsi all’Argentario dove si trovava in vacanza, è stato direttore del Giornale del Mattino a Firenze, poi del Popolo, quotidiano della Democrazia Cristiana, a Roma, da dove andò alla direzione generale della Rai, succedendo a Rodolfo Arata. Anche Arata era stato direttore del Popolo: ma quanto questi fosse tiepido, timido, quasi disinteressato – relata refero, non avendolo conosciuto di persona, né per la mia giovane età avendo allora cognizioni precise su di lui sul piano professionale o su quello politico – quanto invece avesse nerbo Bernabei, lo dimostrano gli esiti che nell’un caso e nell’altro le due direzioni lasciarono, sia al Popolo che alla Rai. Bernabei sotto l’input di Amintore Fanfani – che lo volle appunto prima al Mattino, poi al Popolo, quindi alla Rai-Tv – aveva in mente di trasformare il giornale della Dc in un quotidiano tout court, da bollettino di partito, o quasi, che era. Aprì quattro redazioni (a Milano, a Torino, in Sicilia e in Sardegna) e uffici di corrispondenza all’estero: a Vienna, allora, inizi anni Sessanta, avamposto e “sentinella” verso l’Est europeo, affidandone la cura a Franco Amadini (e successivamente ad Angelo Paoluzi); a Bonn, con Gianfranco Rossi; a Parigi, con Franco Colombo; a Londra, con Francesco Mei; a Washington, con Marcello Spaccarelli.
Sul piano interno, rivoluzionò la grafica del giornale, introducendo il carattere Bodoni e impostando l’impaginazione su 8 colonne, rispetto alle tradizionali 9 in voga allora; ampliando la foliazione e la tiratura, invano con ciò cercando di imporre la lettura, previo acquisto… , a un popolo democristiano sempre tanto generoso nelle urne quanto sparagnino nei confronti della stampa di partito. Proprio questa impostazione tesa allo sviluppo del quotidiano portò all’aumento degli organici del personale addetto alle varie lavorazioni: tipografi, correttori di bozze, amministrativi, e quant’altro. Il palazzotto delle Cinque Lune, sussiegosa alternativa in piazza Navona all’austero e ben più massiccio Palazzo Braschi, all’altro capo della celebre piazza, crebbe di importanza se non architettonica, almeno politica e culturale. Crebbero le Cinque Lune, crebbe il Popolo, in un tourbillon di iniziative prese sulle ali dell’entusiasmo che sembrava poggiarsi sul crescente consenso dei cittadini, del resto confermato dagli esiti elettorali della primavera del 1958. L’importanza del Popolo, all’epoca degli episodi accennati, era anche dovuta al fatto che il suo direttore era membro di diritto della direzione nazionale della Democrazia Cristiana. Che si dibatteva nel dualismo - di pensiero, di azione, di potere interno, fors’anche del riflesso potere all’esterno - tra Amintore Fanfani e Aldo Moro, ambedue democristiani doc a 24 carati, ma di differenti, fors’anche di opposte, strategie politiche.
Il discorso, diciamo così politico (che meriterebbe comunque qualche notazione in più… ), rischia tuttavia di farmi allontanare dalle pur brevi notazioni in ricordo di Ettore Bernabei, il Bernabei del Popolo, naturalmente, quello da me conosciuto. E del quale merita si ricordi uno, tra i tanti episodi, che tra l’altro viene a coincidere proprio in questi giorni di grandi “abbuffate” televisive di sport con quanto sto per raccontare.
Correva dunque l’anno 1960, la Roma, intesa come città, era regalmente … olimpica, per una Olimpiade che sarebbe rimasta nella storia: per le due Germanie che sfilarono sotto un’unica bandiera, quella del CIO, per la prima vittoria di uno sprinter bianco (Livio Berruti) contro i velocisti neri americani, per la presenza in massa dei paesi africani, molti dei quali in quegli anni stavano guadagnandosi l'indipendenza nazionale: ed erano africani che seppero distinguersi per la prima volta con risultati tecnici notevoli.
Nello scenario delle Terme di Caracalla, un ginnasta sovietico, tal Boris Shaklin, vinse ben sei (o sette?) medaglie d’oro: e al capo dei servizi sportivi del Popolo, recensore della specifica manifestazione, venne spontaneo ironeggiare su quelle medaglie, posponendole in una teorica scala di meriti alla medaglia vinta da Berruti in una gara di ben altro spessore, quale quella dei 200 metri in atletica (ogni medaglia merita plauso, d’accordo, anche se volteggio, trave, cavallo con maniglie e quant’altro, fanno parte di una disciplina – la ginnastica artistica – che non può essere confrontata con le specialità dell’atletica leggera). Apriti cielo! Bernabei quando lesse quell’irriverente, per lui, paragone, andò come si dice su tutte le furie, e fece al malcapitato una lavata di testa memorabile, ritenendo inaccettabile – si era oltre tutto nel difficile periodo della guerra fredda, con Est e Ovest a farsi minacciosi l’un l’altro – che si potesse ironizzare, se non addirittura sminuire, una vittoria “sovietica”.
Sono passati lustri da quei giorni: il mondo è cambiato, l’Urss non c’è più, ora c’è la Cina a contendere agli Stati Uniti il primato nel medagliere olimpico, ci sono le piccole atlete di Pechino che volteggiano con grazia invero un po’ forzata su travi, parallele, cavallo con maniglie, o si tuffano dal trampolino senza fare uno sbuffo d’acqua. Il mondo, certo, da allora è cambiato: ma nessuno ce ne voglia – men che meno la memoria del Direttore Bernabei - se la pensiamo esattamente come il capo dei servizi sportivi del Popolo di quegli eroici, sublimi, stupendi giorni olimpici.