Francesca Pasinelli, Direttore generale di Telethon, dopo una prestigiosa esperienza di ricerca ai vertici dell’industria farmaceutica, è riuscita a ottenere fondamentali finanziamenti finalizzati allo sviluppo di nuove terapie per le “malattie rare”.
Cosa si sente di raccontarci di sé?
Mi tolgo dall’imbarazzo della scelta parlando di due gioie molto recenti. Per quando riguarda la sfera personale, ho da poco festeggiato con la mia famiglia il matrimonio della maggiore dei miei due figli. Mentre sul fronte lavorativo ho potuto assistere alla piena realizzazione di un progetto che seguo, insieme alle molte persone che ci hanno lavorato, da quando ho iniziato a lavorare in Telethon: la prima terapia genica sviluppata all’Istituto San Raffaele-Telethon (SR-Tiget) è diventata una terapia accessibile a tutti i pazienti che d’ora in poi avranno bisogno di accedervi. In entrambi i casi ho avuto modo di riflettere sul tema delle “tappe della vita” e su quanto siano importanti i nostri compagni di viaggio in questo percorso.
Sottolinea l’importanza della relazione per realizzarsi nella vita: questo sentire come si coniuga con la sua immagine di “personaggio” pubblico?
Se vogliamo metterla in termini semplici, senza addentrarci nelle considerazioni filosofiche, spero che di me siano sempre colti la buona fede, l’impegno e la passione per quello che faccio, anche se l’approccio un po’ asciutto che ho ereditato dalle mie origini bresciane è a volte percepito come burbero da alcune persone.
Moglie, madre, ricercatrice, manager: è stato difficile?
Concetti come difficoltà, complessità, fatica sono sempre molto relativi - lo dico perché in questi anni ho conosciuto molte famiglie che affrontano quotidianamente la disabilità, l’emarginazione, che purtroppo spesso è associata alle malattie rare, l’impossibilità di pensare al futuro come fa la maggior parte di noi. Incontri che ti riequilibrano la prospettiva su molte cose. Per me avere una famiglia e impegnarmi in un lavoro che mi appassiona è stata la naturale conseguenza della consapevolezza che la mia realizzazione sarebbe stata possibile solo insieme alle persone che amo.
Donna e/è potere: cosa ne pensa?
Devo dire che ho la curiosità di vedere come potrebbero andare le cose se ci fosse un maggiore equilibrio tra maschile e femminile nei ruoli chiave di gestione sia nel pubblico sia nel privato. Questo perché mi è capitato di osservare spesso nelle donne che ho conosciuto e che ricoprivano posizioni di potere - penso, per esempio, ad alcune ministre - un attaccamento forse maggiore che negli uomini, all’oggetto del proprio lavoro e una determinazione a far sì che dal proprio mandato nascessero progetti concreti, cambiamenti tangibili che sarebbero rimasti.
Dopo prestigiosi incarichi e riconoscimenti, cosa l’ha spinta al “no profit”?
La ricerca di senso è sempre stata importante per me. In quel momento ho sentito che doveva portarmi qui e cioè a fare un lavoro che consiste nel rispondere ai bisogni di una comunità.
L’industria farmaceutica può conciliare le esigenze di mercato con quelle di presidio e ausilio alla salute?
Il presidio della salute è intrinseco nella missione dell’industria farmaceutica e credo vada riconosciuto che la buona parte, se non la totalità dei farmaci che hanno determinato un miglioramento della salute della popolazione sono stati realizzati grazie all’industria farmaceutica. Naturalmente parliamo di un soggetto profit che, inevitabilmente, dedica grande interesse alle malattie che rappresentano numeri più interessanti dal punto di vista commerciale, ma è comunque chiamato a un’assunzione di responsabilità in tema di salute pubblica. Ad esempio sulle malattie rare, né l’industria né le istituzioni pubbliche possono limitarsi a considerazioni di natura esclusivamente quantitativa che metterebbero queste malattie, e queste persone, in fondo alla lista delle priorità. Detto questo, c’è per tutti l’esigenza di realizzare interventi che siano, complessivamente, sostenibili. Sono convinta, anche forte dell’esperienza di Telethon, che queste sfide si possano affrontare solo attraverso un modello collaborativo nel quale anche il no-profit gioca un ruolo molto importante.
Uno dei tanti meriti che le viene riconosciuto è quello di aver proposto, per la prima volta in Italia, un innovativo sistema di valutazione della ricerca…
Sarò sempre grata a Susanna Agnelli per avermi dato la possibilità di lavorare in piena autonomia e serenità in quella direzione in un'epoca in cui ciò non era così scontato. Si trattava di “copiare” un modello che aveva dato ampiamente prova di funzionare per la selezione di ricerca eccellente in paesi il cui primato nella biomedicina è universalmente riconosciuto. L’innovazione quindi non era nel processo, che era consolidato e ci faceva essere fiduciosi nel nostro operato, ma nell’applicarlo a un sistema, quello della ricerca accademica italiana, che non era abituato alle logiche di una selezione basata esclusivamente sul merito. Abbiamo interiorizzato i principi di quel processo e li abbiamo applicati in un metodo che, in vent’anni, ha dimostrato di produrre un impatto significativo rispetto al nostro obiettivo, vale a dire fare avanzare la ricerca verso la cura delle malattie genetiche rare.
Come è riuscita a conciliare il rigore scientifico e l’esigenza di divulgare con un mezzo di massa come la televisione, il messaggio di Telethon?
Nel sodalizio con Telethon, la Rai ha dato e continua a dare prova di una grande capacità di interpretazione del proprio ruolo di servizio pubblico. Abbiamo assistito, soprattutto negli ultimi anni, a un arricchimento dei linguaggi utilizzati per valorizzare i contenuti di Telethon e declinare il messaggio di solidarietà su cui si basa la maratona televisiva di dicembre. A questo proposito è importante tenere presente che rigore e semplicità non sono principi antitetici, anzi. Nella nostra comunicazione, non solo in maratona, ci impegniamo sempre per non banalizzare, ma semplificare il messaggio.
Si è spesa per la terapia genica: ce ne può sintetizzare il significato e come siete riusciti a “sdoganarla”?
È una terapia innovativa che utilizza i geni come farmaci realizzando l’introduzione nel genoma del paziente di un gene sano che ripristini la funzionalità mancante nella patologia da curare. A metà degli anni ’90, quando la Fondazione Telethon e l’Ospedale San Raffaele fondarono l’Istituto San Raffaele-Telethon per la Terapia Genica, questo approccio rivoluzionario appena approdato ai primi studi di applicazione sui pazienti era visto da molti esperti del settore come la prospettiva più promettente per intervenire su malattie causate dal funzionamento anomalo di un singolo gene, come sono gran parte delle malattie rare. Sfortunatamente negli anni successivi i primi studi clinici negli Stati Uniti e in Francia furono interrotti per il verificarsi di effetti collaterali gravi. C’era ancora da lavorare molto sulla sicurezza dei vettori di origine virale usati per traghettare i geni nelle cellule del paziente. Questo determinò una messa in discussione della terapia genica e una generale diffidenza delle agenzie di finanziamento rispetto a questo tipo di progetti.
Le alterne vicende della terapia genica sono molto indicative di una certa deriva che dagli anni ’90 ha preso la comunicazione della scienza quando si è iniziato a parlare di ogni nuova scoperta come di un’applicazione imminente per finire poi, inevitabilmente, per sgonfiare la bolla mediatica ai primi segnali che la cura non era esattamente dietro l’angolo. Nonostante l’abbandono della terapia genica da parte dei grandi investitori, l’impegno della Fondazione Telethon sulla messa a punto di questo approccio terapeutico è andato avanti con determinazione e con una scrupolosa verifica dell’investimento nella ricerca di SR-Tiget. Le scelte fatte si sono sempre basate su una solida gestione a partire dal ricorso agli advisor competenti e alla valutazione dei progetti da parte di una commissione internazionale indipendente.
In altre parole, non avevamo deciso di fondare l’Istituto perché abbagliati dal clamore mediatico iniziale, ma perché avevamo gli elementi per credere nelle potenzialità di sviluppo della terapia genica e per questo non abbiamo fatto venire meno il nostro sostegno al progetto nel momento in cui molti altri lo hanno fatto. Ad oggi, questa continuità di supporto ha permesso al team del SR-Tiget di portare ai pazienti quattro terapie efficaci e sicure e di conquistarsi una leadership memoriale nell’ambito della terapia genica. In conclusione, direi che quello per cui ci siamo spesi è un percorso della ricerca che non segue l’emotività ma avanza lontano dai riflettori con caparbietà, pazienza e scrupolosa verifica, avendo l’obiettivo della cura.
Parallelamente al progetto principale di Telethon, si è adoperata, con il “Progetto Carriere”, del problema della “fuga dei cervelli”: a cosa attribuisce questo doloroso fenomeno?
Non amo particolarmente l’espressione “fuga dei cervelli” e la “lamentatio” che spesso la accompagna. Però è indubbio che se consideriamo il flusso di ricercatori in entrata e in uscita dall’Italia, il bilancio è pesantemente negativo. Credo quindi che ci si debba impegnare per creare nella nostra ricerca le condizioni per attrarre i migliori talenti, italiani e stranieri.
Si era prefissata anche l’obiettivo di passare da una regime di ricerca a uno di assistenza?
Le due attività sono complementari. Per Telethon la ricerca è uno strumento il cui fine è la cura. Posso dire con un certo orgoglio che negli anni la ricerca che abbiamo sostenuto si è dimostrata funzionale alla cura intesa in senso ampio di questo termine e cioè non solo terapia ma cura della persona. Il Programma Malattie Senza Diagnosi e il progetti dei Centri NEMO rappresentano esempi molto interessanti e concreti di applicazione della ricerca per migliorare l’accesso alla diagnosi e la qualità della vita delle persone con malattie genetiche rare.
Come Milano ha contribuito al progetto Telethon?
Milano ha portato un contributo fondamentale tramite una piattaforma biomedica che è tra le migliori nel Paese. Il grande numero di progetti presentati dalle istituzioni cittadine, selezionati ogni anno dai nostri bandi, parla chiaro. E un istituto come SR-Tiget, che deve il proprio successo alla forte interconnessione con la clinica, ha trovato in questo contesto il terreno ideale.
Qual è la più grande soddisfazione che le ha dato Telethon?
La più grande soddisfazione che ho ricevuto da Telethon è il privilegio di fare un lavoro che mi appassiona e che ha un impatto concreto sulla vita delle persone.