Come e forse più che in altri ambiti, la medicina antica pullula di ‘star’ la cui fama fu proporzionale allo stipendio percepito. In pochissimi casi si trattava di medici pubblici la cui retribuzione solo raramente assunse proporzioni rilevanti, quanto di medici privati al servizio dei potenti.
Il primo a farsi notare per lo stipendio percepito fu Democede di Crotone (VI secolo a.C.) cui prima gli Egineti diedero 1 talento all’anno, poi gli Ateniesi 100 mine (= 1 talento e mezzo circa), infine il tiranno di Samo Policrate 2 talenti. Passò poi, dopo tante vicissitudini, al servizio del re di Persia Dario I che per i suoi servigi lo ricoprì d’oro rendendolo potentissimo alla sua corte.
Se tra VI e I secolo a.C. altri medici greci accumularono enormi ricchezze lavorando come medici privati alla corte di potenti sovrani – basti pensare ad Erofilo ed Erasistrato che tra la fine del IV e l’inizio del III secolo a.C. furono al servizio dei re d’Egitto Tolomeo Soter e Tolomeo Filadelfo – fu soprattutto sotto l’impero romano che alcuni di essi, diventati notissimi, accumularono patrimoni rilevanti tanto da procurarsi una cattiva fama. Così – narrava Plinio il Vecchio – i medici greci, noti per la loro avidità che li aveva portati ad accumulare enormi fortune, si comportavano da mercanti rapaci davanti al letto di malati moribondi chiedendo enormi compensi in cambio di cure spesso inefficaci.
In particolare – continuava Plinio – nel I secolo d.C. i medici Cassio, Carpetano, Arrunzio e Rubrio, avevano ricevuto dagli imperatori presso cui erano in servizio uno stipendio annuale di 250.000 sesterzi; allo stesso modo – ironizzava Plinio – un loro collega Quinto Stertinio aveva percepito dal suo datore di lavoro, l’imperatore Tiberio, ‘solamente’ 500.000 sesterzi all’anno: a essi si aggiungevano i 600.000 che questo personaggio riusciva a racimolare attraverso le visite private. Ancora, il fratello di Quinto Stertinio, Stertinio Senofonte, aveva guadagnato analoga somma lavorando al servizio dell’imperatore Claudio. Un’attività assai lucrativa, dunque, che aveva portato i due fratelli a lasciare in eredità ben 30 milioni di sesterzi alla loro morte.
Poca roba se confrontati con le ricchezze del medico Alconte originario della Gallia, il quale, pur multato di 10 milioni di sesterzi dall’imperatore Claudio, in poco tempo aveva rimesso in sesto il patrimonio, accumulando analoga somma. Tali stratosferici guadagni non giovarono certo all’immagine del medico greco presso i Romani, che, da Catone in poi, erano soliti presentarlo come carnefice, impostore e avaro. Un’immagine, questa, cristallizzatasi nella tradizione, che non esitava a impiegare quest’immagine anche in contesti narrativi dal carattere moraleggiante. È il caso del poeta latino Fedro che, tra I secolo a.C. e I secolo d.C., faceva del medico impostore il protagonista di una delle sue favole, narrando quanto segue:
Un cattivo calzolaio, ridotto in miseria, si mise a esercitare la medicina in un paese dove non era conosciuto e, continuando a spacciare un antidoto, falso di nome e di fatto, si procurò con le sue abili chiacchiere una certa fama. Ora avvenne che il re della città fosse costretto a letto, sfinito da una grave malattia; questi, per metterlo alla prova, chiese un bicchiere, vi versò dell’acqua, fingendo di mescolare del veleno con l’antidoto e gli comandò di berlo fino in fondo, dopo avergli promesso un premio. Per paura di morire, lui allora confessò di essere diventato famoso come medico non già per una qualche competenza di quest’arte, ma per la stupidità della gente. Il re convocò quindi il popolo e pronunciò queste parole: «Che pazzia è la vostra? Riuscite a capirlo voi che non esitate ad affidare la vostra testa a uno cui nessuno ha mai consegnato i piedi da calzare?».
Il racconto – concludeva Fedro – riguardava coloro la cui stoltezza è occasione di guadagno per gli imbroglioni.
Tratto da: G. Squillace, I balsami di Afrodite. Medici, malattie e farmaci nel mondo antico, San Sepolcro, Aboca Museum, 2015