Quando il campionato finisce, finisce in genere anche qualche carriera calcistica. Viene allora spontaneo parlare di addii, e in tal caso la memoria non può non andare a Les Adieux, come il titolo della mirabile sonata per pianoforte che Ludwig van Beethoven dedicò, seppure con il titolo di Lebewohl (addio, vivi bene in tedesco, un po’ diverso da Les Adieux con cui è ormai conosciuta) al suo mecenate e protettore politico, l’arciduca Rodolfo. E di addii il nostro calcio, il campionato in particolare, ha costellato anche, come da tradizione, il finale di stagione. A cominciare dalla lunga vicenda di Francesco Totti, che tuttavia il suo addio non lo ha ancora pronunciato.
A dirla lontano dall’emotività affettiva e tifoidea, questa del ritiro di Totti dall’agonismo ci è sembrata, e ci sembra tuttora, una quaestio che solo i quiriti (e di questi ovviamente solo quelli di fede calcistica giallorossa) stanno vivendo e hanno vissuto, interpretato, metabolizzato come l’essenza stessa del pathos non solo sportivo. Negli stessi giorni, verrebbe da dire: negli stessi minuti, in cui cronisti, cameramen, esegeti del lessico calcistico e storiografi del pallone si esercitavano nel reperire aneddoti, immagini, iperboli, raffronti per dare lustro ad una decisione che tra l’altro non era, non sembrava essere, ancora definitiva troppi essendo i commi mancanti di una lettera di addio che le parti trovavano difficoltà a rendere comunemente esplicita, negli stessi giorni - dicevamo - altri calciatori, altri sportivi, decidevano di lasciare le scene agonistiche: Luca Toni, per esempio, ma anche Valentino Rossi, anche Giampaolo Bellini, anche Valentina Vezzali, anche Totò Di Natale (considerazioni non dissimili nella sostanza, ancorché assai diverse nella forma, potrebbero rinvenirsi negli abbandoni/addii di Alessandro Del Piero o di Paolo Maldini, o di Manuel Pasqual, che lascia la Fiorentina, non l’agonismo).
Qualche lacrima, più o meno sincera, più o meno spontanea, qualche saluto, anche questo più o meno sincero, molti ricordi e forse qualche rimpianto sono stati registrati e immortalati da solerti telecamere e webcam in ciascuno degli addii, cui si è fatto riferimento. Nessuno di quei momenti ha tuttavia avuto l’enfasi, lo spazio, la partecipazione che sono stati registrati per il “ciao” di Francesco Totti all’Olimpico (anche perché l’addio definitivo non sarà pronunciato che tra un anno, forse). Certo: una vita interamente spesa alla corte dell’A.S. Roma 1927 non può non lasciare il segno, a maggior ragione se questa vita è cominciata anagraficamente nella Città Eterna e calcisticamente nel vivaio di Trigoria (o di quella Alma che al Motovelodromo Appio era stata la prima “culla” della Roma già di Testaccio…).
Non sappiamo come questa storia andrà a finire, né quando. Fatto si è che chi gioca vorrebbe giocare sempre, all’infinito: basti ricordare le facce buie di quanti sono richiamati in panchina dal proprio tecnico, per decisioni non legate a problemi sanitari. Né è lontano dal vero chi in quei frangenti rammenta la citazione del bambino che, per “rappresaglia” con i compagni di gioco che più bravi lo escludono dalla partitella, minaccia di portarsi via il pallone, che è suo…
Il pallone, nel nostro caso, non è di Totti, anche se qualche atteggiamento ce lo ha fatto sospettare. Il pallone (nello specifico possiamo più correttamente parlare di boccino?) è nelle mani del presidente e deus ex machina della società, James Pallotta: che non vorrà certo inimicarsi i fans, e gli sponsor, di Totti, ma che da buon americano e soprattutto da buon imprenditore farà coincidere, senza strami, le aspettative dell’uno e gli interessi dell’altro.
Nel bailamme delle mille e una interpretazione del caso (e sempre attendendo le decisioni dell’articolo quinto, vale a dire di chi avendo i soldi in mano ha… vinto), c’è chi ha ricordato l’impiego col contagocce e in finale di partita di un altro grande anziano, José Altafini, da parte della Juventus: ma il paragone non calza, soprattutto perché l’italobrasiliano alla Juve era andato già in pantofole, per così dire, a conclusione di una carriera gloriosamente giocata altrove. A differenza, naturalmente, di Totti che ha vissuto sempre e soltanto a Roma, in questo adombrando finanche il dubbio delle sue reali potenzialità, caratteriali, non tecniche, che non ha potuto, o forse voluto, manifestare lontano dal confortevole lido natio.