Se pur la Prima guerra mondiale viene considerata dagli storici come la prima guerra “veramente” industriale dove la differenza tra una vittoria e una sconfitta in battaglia dipendeva molto dalla quantità e qualità di armi, bombe e artiglierie che vi venivano impiegate, non mancarono aspetti che riportavano con la memoria indietro nel tempo a guerre combattute con spade, lance, corazze e mazze ferrate, dove l’importanza della forza e dello spirito combattivo del soldato erano quegli elementi che facevano la differenza tra la vita e la morte.
Le artiglierie assunsero un’importanza fondamentale nella preparazione e nell’andamento dei combattimenti, con proiettile di calibro sempre maggiore e cannoni con gittate di decine di chilometri, la mitragliatrice fu l’arma regina della guerra di trincea, grandi e potenti corazzate ingaggiarono furiose battaglie sui mari; verso la fine del 1916 fecero la loro apparizione sui campi di battaglia del fronte occidentale i primi carrarmati, senza contare la nascita dei reparti lanciafiamme e la terribile guerra dei gas, l’arma più subdola e terribile di tutto il conflitto che causò centinaia di migliaia di morti.
Accanto a tutte queste armi “moderne” però, come detto all’inizio, la Grande Guerra rappresentò forse anche l’ultima guerra in cui furono usati strumenti bellici che ci riportano a battaglie passate: i soldati che andavano a tagliare i reticolati nemici, che nell’esercito italiano facevano parte delle “compagnie della morte”, il che la dice lunga sulla pericolosità di tale operazione, oltre alle cesoie a volte indossavano corazze ed elmi di foggia medievale.
Le più famose furono quelle denominate “Farina” dal nome del suo ideatore, ma anche altri tipi furono indossati nelle trincee e altri prototipi furono sperimentati anche se per ovvi motivi di peso e scomodità non furono mai usate al fronte. Si usarono anche mazze ferrate di vera foggia medioevale, spesso abbinate all’arma “moderna” del gas, infatti per finire un nemico che non fosse già stato ucciso dal venefico strumento ma solo agonizzante, non andava la pena sprecare una pallottola e quindi un colpo di mazza ferrata era il modo più semplice ed “economico per finirlo ( …lo so, sembrano affermazioni alquanto ciniche ma purtroppo questa, e anche peggio, era la realtà della trincea nella Prima guerra mondiale), senza contare il loro uso nei combattimenti corpo a corpo dove oltre a queste, le baionette e i pugnali, si usavano anche i badiletti che tutti i soldati avevano in dotazione ma spesso anche pietre e sassi in una guerra per certi aspetti ancora da trogloditi, visto anche dove vivevano i soldati nelle trincee e nei ricoveri scavati nella roccia e sotto terra.
Accanto a tutte queste armi nuove e antiche, a rendere la Prima guerra mondiale ancora una guerra non del tutto “moderna” un buon contributo lo ha dato l’impiego in battaglia di reparti di antica tradizione guerresca, uno tra tutti quello della Cavalleria.
La cavalleria italiana, dopo le prime timide avanzate in territorio nemico, nella maggior parte dei casi abbandonato dall’esercito austro-ungarico per poter attestare le proprie truppe su posizioni più favorevoli e maggiormente difendibili, dovette subito fare i conti con le trincee, il filo spinato e le mitragliatrici che ridussero notevolmente la possibilità di manovra di tale arma, e così molti reparti di cavalleggeri dovettero essere appiedati e dovettero combattere come semplici fanti. Alcuni scelsero anche la neonata aviazione, diventando provetti piloti, uno su tutti e sicuramente il più noto per le sue 34 vittorie aeree, Francesco Baracca che proprio per sottolineare questa sua appartenenza all’arma a cavallo, volle disegnato sui suoi aerei quel cavallino rampante che a fine guerra la madre dell’eroe, caduto sul Montello il 19 Giugno 1918 durante la Battaglia del Solstizio, donò all’ingegner Ferrari che ne fece il marchio vincente (pur cambiando l’inclinazione della coda) della sua celebre casa automobilistica.
Reparti di cavalleria parteciparono alla conquista di Gorizia, molte foto li mostrano entrare nella città abbandonata dagli austriaci in ritirata. Parteciparono sempre sul Carso anche se in parte appiedati alle battaglie per la conquista di quota 144, dove si distinse il giovane cavalleggero Elia Rossi Passavanti, vera leggenda della cavalleria, che ferito più volte e dato anche per morto, ferito alla testa, visto che non dava più segni di vita, anche se si racconta che riuscisse a percepire tutto quello che gli succedeva attorno, era già pronto per essere sepolto assieme agli altri caduti, ma grazie a uno sforzo disperato riuscì ad afferrare la caviglia del cappellano militare intento già alla benedizione delle salme. Più volte decorato (ebbe, tra le altre, nella sua lunga carriera militare ben due medaglie d’oro al valore) si distinse, essendo stato l’ultimo cavalleggero a ripiegare, anche in quella che forse è considerata la battaglia in cui la cavalleria italiana ebbe un peso predominante sul suo epilogo: quella di Pozzuolo del Friuli del 29-30 Ottobre 1917 in piena ritirata dopo lo sfondamento austro-ungarico a Caporetto.
La resistenza difficilissima, a causa dell’enorme sproporzione delle forze in campo e il sacrificio dei reggimenti Genova e Novara che persero più della metà dei propri effettivi, permise però all’intera Terza Armata di ripiegare al di là del Tagliamento prodromo di quella che poi sarà la difesa sul Piave da parte dell’esercito italiano.
E fino all’ultimo minuto della Grande Guerra la cavalleria contribuì alla vittoria finale da parte dell’Italia, dato che gli ultimi caduti italiani furono proprio dei cavalleggeri: quelli del 4° squadrone del Reggimento Aquila che caricarono le truppe austriache alle 14.55 del 4 Novembre 1918 al quadrivio del Paradiso a sud di Udine. Due ore prima i bersaglieri avevano raggiunto la retroguardia austriaca ed era caduto il diciottenne sottotenente Riva di Villasanta. Sopraggiunto il I gruppo del Reggimento Aquila agli ordini del Te. Col. Pezzi Siboni, si lanciò alla carica con in testa il 4° Squadrone, con il Capitano Grilli, i tenenti Porro Schiaffinati e Piersanti, i sottotenenti Airoldi e Balsamo. Dello squadrone, travolto dal fuoco delle mitragliatrici nemiche, rimasero in sella pochi animosi, che continuarono a galoppare verso il nemico. Caddero tra gli altri i sottotenenti diciannovenni Augusto Piersanti e Achille Balsamo.
Cinque minuti dopo, alle 15.00, come previsto dagli accordi firmati a Villa Giusti il giorno prima che sancivano la fine delle ostilità tra Italia e Austria, le trombe suonavano il “cessate il fuoco”. La guerra sul fronte italo-austriaco era finita.