Pioniera dell’oncologia pediatrica, Franca Fossati Bellani, con una formazione internazionale e più di 200 pubblicazioni scientifiche, ha creato presso l’Istituto nazionale dei Tumori di Milano il primo reparto di oncologia pediatrica italiano. Il suo impegno e la sua ricerca le sono stati riconosciuti con l’assegnazione dell’“Ambrogino d’oro”, la medaglia d’oro di Benemerenza Civica, il Premio “Rosa Camuna” Regione Lombardia e la nomina a Ufficiale al merito della Repubblica.
Cosa sente di raccontarci di lei, come è arrivata ad essere la dottoressa Franca Fossati? C’è stata una folgorazione sulla via di Damasco o è stata una scelta che si è fatta strada a poco a poco dentro di lei?
Ho fatto studi classici al liceo Parini di Milano, ma lo studio che prediligevo era quello del pianoforte. La decisione di iscrivermi alla facoltà di Medicina avvenne improvvisamente durante il ritorno a Milano in treno da Roma dopo un viaggio culturale con genitori e fratelli poco prima dell’esame di maturità. Non ci fu nessuna riflessione, avevo ubbidito alla forza della mia voce interiore. Ricordo ancora una calma straordinaria a cui non seguirono dubbi o ripensamenti.
Qual è stato il suo percorso formativo?
Dal gennaio 1967 avvenne l’avvio, al fianco di Gianni Bonadonna e con il sostegno fondamentale di Umberto Veronesi, della mia formazione di medico e di oncologo. Realizzare a Milano una struttura come quella della pediatria che avevo frequentato a Parigi al Gustave Roussy fu una sfida con l’ambizione di poter contribuire allo sviluppo di un ambito della Medicina non ancora nato in Italia, creando il collegamento tra l’oncologia e la pediatria. L’aver potuto creare un ambiente dove, accanto alle complessità delle patologie da curare, non ci fosse solo l’ospedale ma anche la scuola, la sala giochi, il terrazzo con il giardino e le tartarughe, insomma una comunità di relazioni e di esperienze e affetti speciali, è tuttora motivo di grande soddisfazione.
In tutti gli anni della sua professione ha incontrato migliaia di bambini e i loro genitori…
Ho incontrato, ascoltato, conosciuto, condiviso storie e vicende di oltre cinquemila famiglie provenienti da tutta Italia e non solo, di ogni estrazione sociale , culturale, con cui, assieme all’equipe di lavoro, si è cercato di realizzare quel rapporto di fiducia necessario per procedere nel modo migliore nel percorso di di cura. La chiamiamo alleanza terapeutica, un processo non facile da costruire, che richiede esperienza, tempi e modi adeguati. Le vite cambiano ed è necessario riprogrammare ogni progetto: per affrontare la nuova realtà di queste famiglie è stato necessario introdurre nel team terapeutico figure professionali indispensabili quali l’assistente sociale e lo psicologo clinico. Un modello di lavoro che nell’oncologia dell’adulto non è così sentito.
Essere oncologa espone al contatto continuo col dolore, con la disperazione, con un senso di impotenza; il dolore che riguarda i bambini è ancora più difficile da tollerare, come si riesce a far fronte a tanto sconquasso emotivo?
Il tumore compare come una improvvisa tempesta nella normalità con la sua carica aggressiva e di minaccia alla vita. Curare i tumori vuol dire vincere ovvero guarire, o perdere ovvero morire. Oggi nella nostra disciplina è possibile vincere nella maggior parte dei casi con un prezzo e una fatica diversi e seconda del tipo di tumore. Dagli anni 2000 grazie ai progressi delle conoscenze più di 7 minori su 10 sono candidati alla guarigione. Di fronte ad ogni grave malattia dobbiamo saper bilanciare e distinguere l’aspetto tecnico da quello emotivo. Competenza e preparazione scientifica non bastano se non c’è ascolto. Se non si può guarire abbiamo il dovere di rimuovere il dolore fisico e stare al fianco delle sofferenze altrui. Attorno a un bambino malato o un bambino che non potrà guarire, con l’amore insostituibile di chi l’ha generato, c’è poi la presenza amorevole di quanti si sono adoperati per le sue cure: infermieri speciali, psicologi, fisioterapisti, assistenti sociali, ausiliari volontari. Non tutti riescono ad accettare queste realtà, ed è comprensibile. Ma come non soccombere a tanta fatica e a tanto dolore? Come non incorrere in quell’esaurimento emotivo e operativo che si definisce burn out? Lavorando in equipe, confrontandosi apertamente e regolarmente sulle situazioni critiche possibilmente con la supervisione psicologica di gruppo.
I bambini, gli adolescenti si aprono alla vita, sono dei boccioli che stanno aspettando il loro tempo per schiudersi, sono all’inizio di un percorso tutto da scoprire e da inventare. La malattia oncologica in quella fascia di età sembra essere una stonatura, la stecca imperdonabile di un ritmo, di una melodia a cui è impedita la realizzazione della sua partitura.
Perché giovani, bambini anche piccolissimi possono essere colpiti da un tumore? Questa è la domanda più complessa che la ricerca scientifica si deve porre. Oggi si ritiene che l’aspetto/componente genetica sia preponderante rispetto a cause ambientali. Fortunatamente, per la maggior parte di chi raggiunge la guarigione, là dove non vi siano esiti di terapie invasive, la malattia può essere una parentesi esistenziale da cui può scaturire un'incredibile energia e favorire una profonda maturazione personale. Quando la guarigione non è possibile parleremo di vite interrotte se, prima del suo ultimo saluto, non verranno ottemperati i bisogni e i desideri di quel bambino, di quel ragazzo, se verrà a mancare quella rete di amore globale a cui ho già accennato. Come dimenticare Lorena che ha voluto affrontare gli esami di terza media a compimento del suo vivere terreno il giorno prima dell’addio? Nei genitori la consapevolezza di aver adempiuto al meglio il percorso della malattia non potrà lenire l’indicibile dolore della perdita ma consentirà con il tempo di rivedere e proseguire il progetto di vita.
Essere oncologa pediatrica comporta anche il prendersi cura dei genitori, della loro inevitabile oscillazione tra lo sprofondare in solitudini disperate e alimentarsi di speranze illusorie, si può anche verificare la tragica ostinazione del non voler arrendersi e di non lasciare andare…
Nel rapporto con i genitori è necessario, e non sempre facile, effettuare un costante, corretto e
continuo esame della realtà, sorretti dalla fiducia nelle nostre possibilità e capacità terapeutiche, e dai
risultati della ricerca clinica. Oggi , diversamente al recente passato, sono disponibili per alcuni tumori pediatrici farmaci sperimentali laddove i trattamenti, cosiddetti standard, abbiano fallito. Sperimentare nuove molecole è necessario. Lavorare in equipe, rappresenta la miglior garanzia per non incorrere nel rischio dell’accanimento terapeutico, dell’onnipotenza medica e può impedire alle famiglie di essere abbagliati da false promesse di ciarlatani.
Un lavoro così impegnativo da tanti punti di vista porta quasi inevitabilmente a fare i conti con se stessi. Come e quanto ha influito e tuttora influisce il suo percorso di vita nell’approcciarsi a questa esperienza e nella sua metabolizzazione?
È una domanda molto personale e intima e penso che dovremmo essere sempre presenti a noi stessi nelle diverse fasi della vita, nelle decisioni da prendere e nelle responsabilità che abbiamo, grandi o pccole che siano. Mi sento di dire che sono stata una bambina e una ragazzina molto fortunata perché molto amata dai genitori, femmina dopo 3 fratelli maschi, e molto amata anche da quella persona speciale che è stata la mia insegnante di pianoforte cui sono stata legata per tutta la sua vita. Ho cercato di trasmettere un po’ di quanto ricevuto a chi in quel momento ne aveva bisogno. Ma è stato fondamentale il lavoro di analisi che ho voluto fare con un grande psicoterapeuta per superare momenti difficili non solo professionali. Conoscersi per conoscere, avere gli strumenti necessari a un corretto esame di realtà rappresenta un' arma che mi sento di consigliare a chi si deve confrontare con la sofferenza altrui. I bambini, i ragazzi e le loro mamme e i papà mi hanno insegnato moltissimo. “Maxima debetur puero reverentia” dicevano i latini. È necessario il rispetto, la sincerità, la giusta parola per far loro affrontare il dolore anche attraverso il linguaggio corporeo, dall’espressione del tuo sguardo, dal tono della tua voce. Un lessico che costruisci giorno per giorno.
E qui ci ricolleghiamo alla sua passione per il pianoforte che, in un sapere implicito, già conteneva questo significato di cura, quella “music behind the words” della voce materna che costituisce il primo contenitore delle angosce del neonato, quel contenitore sonoro che tranquillizza e ritma il tempo dell’esistere, la musica, quindi, intesa come medicina del vivere. Il suo sguardo sembra andare diritto, sereno, ma realistico, professionale, è uno sguardo che sa guardare in faccia la morte senza indietreggiare, ma anche senza negare il dolore e questo penso che funzioni da grande contenitore delle angosce che serpeggiano…
È lusinghiera la sua affermazione. Spero sia stato così per la maggior parte degli incontri e il tempo , le esperienze e il contesto sicuramente hanno influito sulla mia modalità di rapportarmi agli altri.
Milano è stata un buon contenitore per la realizzazione dei suoi progetti?
Milano ti ascolta se vuoi fare, così è stato per me e devo ringraziare sostenitori e benefattori. Ho vissuto il momento della crescita e dello sviluppo dell’oncologia che da Milano si è propagata e diffusa in tutto il Paese. Mi auguro che Milano si renda sempre più conto, nei fatti e non nelle parole, dei bisogni dei bambini e delle loro famiglie. È necessario unire e collegare le forze pubbliche e private per dare a tutti i bambini le stesse opportunità di crescita, di conoscenza e di futuro.