Tutto rema contro, stamattina. Il telefono che mi sveglia per la solita inutile offerta, la lampadina del bagno che mi scricchiola via la luce, il barattolo vuoto del caffè. Mi vesto in fretta, procedo per strattoni, per rabbia repressa, per frustrazione di secoli, e scendo in strada con la consapevolezza che c'è un popolo di nemici da affrontare. Quel getto d'aria sputato in testa dall'aria condizionata, all'ingresso del supermercato, mi fa venire i brividi. Prendo al volo quei quattro alimenti che mi permettono la sopravvivenza e mi metto in fila alla cassa, tra i corpi fermi della fosse comune dell'attesa. Ed è qui che mi trovo, quando ti vedo entrare.
Ti ho persa per anni. E credo di non averti avuta mai. Mi hai data alla luce con lo stesso scricchiolio assente della lampadina poco fa. Mi hai cresciuta dandomi da succhiare un seno avvelenato. Come si vede crescere un unghia, un pelo, un neo da tagliare via. Come un ragno, nell'angolo più alto del muro, che si tesse un mondo sottilissimo attorno, che tenta la sua disperata e paziente corsa alla vita. Ero il tuo animaletto domestico non richiesto, ma eri così buona da concedermi il tuo spazio.
Non ci siamo mai parlate davvero. Io a sei anni già raccoglievo monetine per il mio viaggio via da te. Ti circondavi di uomini, tanti uomini, turni rapidi di vite che sembravano durare giorni, una strage di soldati che ti puntavano al petto senza vincere mai. Uomini che mi scansavano come un oggetto tagliente, o che mi toccavano come protesi tua. Nessun posto, in quella casa, era mio.
Ti vedo entrare, col tuo solito sorriso mezzo accennato, con gli stessi occhiali da sole che ricordo abbandonati sul tavolo in cucina, con lo stesso taglio di capelli su una chioma sempre meno folta, di un nero falso d'inchiostro di penna. Mi volto di scatto dalla parte opposta, perché non voglio mai più incrociare il tuo sguardo, ma tu ti fermi, ti schianti immobile nel vuoto, e dici il mio nome in un sussurro. Ed io lo sento, ché ho imparato a sentirti anche il flusso del sangue per provare a capirti, e lo sento come una mano che mi serra la gola, che mi abbassa la testa. E vieni ingombrante verso di me, come un godzilla col pellicciotto che fa tremare palazzi di caramelle, di pile stilo, di piantine grasse, e tendi la mano verso le mie mani ferme.
Ancora il mio nome, che stavolta sento davvero, proprio con le orecchie, in quell'enorme rimbombo di caverne che fa la tua voce bruciata di fumo. Ed io sono costretta a guardare, perché in quelle caverne ho sognato di vivere, credendole miniere, prima di capire che tu niente avevi a che fare con l'oro, che sei una chincaglieria di piombo conficcata dentro, che mi rovina il cuore.
Ti guardo le labbra, mentre sciorini parole di lamenti, e mi sento come il rossetto scadente che ti muore sui denti davanti. Ti togli gli occhiali, mi mostri quelle due pozzanghere di occhi, che non riflettono mai il cielo, che mentono sempre. "Come stai, figlia mia? Come stai?" e sembra interessarti davvero, ed inizio a parlare, con un singhiozzo di male che ingoio, e vedo pepite d'oro lontane, nella tua voce grave, e sto per dire che non sto poi tanto bene, che mi sento sola, troppo sola, e dico una parola appena, e tu mi fermi, comoda nel tuo spazio disonesto in pieno cuore mio, e mi chiedi se ho soldi, se ho qualcosa da darti, se posso aiutarti a portare via la spesa, dopo, che devi prendere l'acqua e non hai forza nelle braccia.
E non mi vedi da anni, ma cosa ti importa, tu non hai nessuna idea di cosa sia il tempo, di cosa può vuol dire invecchiare, piegarsi in due dal dolore, avere il terrore di morire. Tu vivi in un delirio di onnipotenza che ti innalza su noi umani, e sarò per sempre la tua schiava perché ti devo la vita. Tu questo pensi.
Ed io ti odio come odio Dio che non mi ascolta. Ma esco dalla fila, ti riempio il cestino mio di cose da mangiare, mi carico fardelli d'acqua e striscio fino a casa tua. E ti chiedo se sei felice di essere tornata, e ti chiedo se stai bene, tu, se hai ciò che ti serve, e poi sistemo tutto mentre tu aspetti in piedi che io me ne vada, e saluto con lo sguardo ogni mio ricordo, il mio angolo di muro sul soffitto, le pozzanghere allagate dal mio pianto, e ti dico: "Se hai bisogno chiamami" e ti segno il mio numero su un foglio vecchio di giornale, e scrivo e penso che non mi hai mai insegnato a scrivere, tu. Te lo metto sul tavolo, sotto gli occhiali da sole.
E vado via piano, richiudendo porte, e spero di sentirti e spero che tu muoia, e ti prego ogni notte, ogni volta che ho la febbre, ogni 15 di Aprile.
Ti prego e ti ascolto, e poi all'alba ti dimentico, e riprendo la vita, la fila, la noia.