Serena Sinigaglia, fondatrice, presidente e direttrice artistica del Teatro Ringhiera ATIR, Associazione Teatrale indipendente per la Ricerca, di Milano, si è misurata, nelle sue regie, con classici, contemporanei e con l’opera lirica. Tra i numerosi riconoscimenti: il Premio Hystrio, il Premio Milanodonna, l’Ambrogino d’oro.
Cosa vuole raccontarci di lei?
Non c'è niente di meno libero della libertà. Quanto è più facile rispondere a una domanda specifica che essere lasciati liberi di dire tutto quello che si vuole… Come se il vero cammino per la libertà esistesse tra i paletti che la negano o quanto meno la limitano. Forse è proprio il limite dell'essere umano: ambire alla libertà ma trovarsi poi totalmente inetto nel gestirsela. Non è forse questo che Dostojevsky scrive nel Grande Inquisitore?
La sua immagine esteriore come “personaggio” e il suo sentire come “persona”
Beh, nel mio caso non parlerei proprio di "personaggio". Non sono così famosa, non devo indossare una particolare maschera, non mi muovo su terreni lontani tra loro. Certo, quello che sono come persona è più profondo, articolato, inaspettato della narrazione che accompagna il mio "piccolo" personaggio. Le narrazioni pubbliche sono sempre semplificazioni, proprio perché pubbliche, spesso sono a-complesse. Sono una regista, che ha fatto e fa prosa e lirica nei teatri, credo nella conciliazione degli opposti, credo che antico e contemporaneo si riguardino e abbiano bisogno l'uno dell'altro, credo che la cultura abbia una responsabilità sociale e politica, una chiesa laica, diciamo, credo nella durata e nella frase " noi è di più che non io" scritta da un condannato della resistenza europea. Su queste convinzioni personaggio Serena e persona Serena direi che si equivalgono totalmente.
Si sente di raccontare il suo sogno?
Esiste il sogno di una maggiore equità nel mondo, di una drastica riduzione della forbice delle differenze. Esiste un altro sogno (che si sposa col primo) di un bene sociale fondato sulla Bellezza, che può e sa "salvarti".
Allora per lei il piacere è…
...meno della passione e dell'allegria. Generalmente non penso al "piacere" semmai al godimento. Il principio del "piacere" è effimero ed equivoco, mentre la passione e l’allegria sono il vero sale della terra.
La donna oggi: liberazione e/o integrazione ?
Liberazione e integrazione. Liberarsi nel senso di conoscere se stessi al fine di affermare la propria identità e la propria unicità è un bisogno umano necessario, l'integrazione è la possibilità di vivere in una società che ti riconosce l'assoluta eguaglianza nell'assoluta (e relativa) diversità. C'è ancora tanto cammino da fare: noi donne continuiamo a venire trattate ingiustamente, ingiustamente sottomesse, sottopagate, sottodimensionate... sotto. Sigh.
Donna e/è potere… cosa ne pensa?
Non ho pensieri particolari su "donna e/è potere", preferirei poter ragionare su essere umano/persona/potere. Comunque: la donna non è il potere, se per potere intendiamo abitare i luoghi del potere. Esiste un potere intimo, famigliare, personale che ha reso la donna, in virtù della sua capacità procreativa potenzialmente "potente", ma la società patriarcale è intervenuta con grande forza perché questa potenzialità non si trasformasse mai in realtà. Se si superassero le barriere del genere, se si parlasse solo di persone, ecco, il mondo sarebbe un po' più bello… e anche più divertente: non ne posso più dei convegni, degli incontri, delle domande che cominciano con "Donna e... ". Già si crea una differenza incolmabile col maschio che pare non dover ragionare su stesso (ma perché mai?).
Stereotipo e realtà della donna milanese
Beh, credo che lo stereotipo possa essere di una donna molto occupata, affaccendata, abile nell'organizzare e gestire mille cose, un multitasking d'efficienza. La realtà spesso è ben altra, è gestirsi l'impegno e la fatica di cercare di fare qualcosa di senso per se' e per gli altri. Districarsi tra i doveri familiari, i desideri, e le possibilità concrete. La strada spianata comunque non lo è mai.
Il rapporto della donna con l’uomo contemporaneo: confronto o scontro?
Ovviamente confronto. Però il confronto non deve rinunciare al conflitto, affrontare i conflitti, anche scontrandosi, è una parte del confronto vero, profondo, sincero che si può e si deve avere con l'altro da se', figurarsi con gli uomini. Devo dire che però è raro trovare un uomo disposto davvero a mettersi in gioco e sullo stesso piano se le questioni in discussione sono la parità dei generi, il maschilismo, le ingiustizie antiche e presenti che le donne subiscono.
Cosa si prova ad essere registi e quali sono le motivazioni e le emozioni che spingono a scegliere un’opera piuttosto che un’altra?
C'è quasi una bramosia, una fame potente di raccontare, di rappresentare fuori da te quello che si agita senza sosta dentro di te. C'è forse onnipotenza unita a una totale impotenza. C'è la gioia di aver creato un mondo vivo, a volte più vivo di quello reale, c'è la frustrazione deprimente di non esserci riuscito. Come dice Peter Brook, si comincia a lavorare a un progetto mossi da un impulso informe. Si tratta di un bisogno, di una pulsione irresistibile a cui tutto il percorso successivo di prove e lo spettacolo tenteranno di dare una forma più compiuta. C'è un pezzo di te, per lo più un pezzo irrisolto di te che ti spinge verso una direzione rispetto che un'altra. Lavorare a uno spettacolo è davvero un viaggio di scoperta e di scandaglio, si arriva sempre diversi da come si era partiti.
Le sue regie vanno da Euripide a Gaber, dalle opere liriche alle nuove drammaturgie, qual è il loro comune denominatore?
Creare un sistema di segni coerenti, giocando onestamente col pubblico dall'inizio alla fine. Non fare mai cose arbitrarie o tanto meno casuali. Essere chiari, concreti e diretti. Dare l'occasione al pubblico di fare un'esperienza di vita assieme agli attori nel qui e ora della rappresentazione. Cercare di parlare ai più, senza fossilizzarsi in schemi, target, modalità proprie.
Lei, la sua associazione e il suo teatro hanno ottenuto prestigiosi riconoscimenti: premi Hystrio, Ambrogino d’oro, Medaglia d’oro della Provincia di Milano, in particolare ha ottenuto il Premio Nazionale regia al femminile Donnainscena e quello Milanodonna del Comune di Milano: che particolarità ha una regia “al femminile”?
Nessuna in particolare, credo. Almeno spero. E non in virtù o a causa del "femminile". Anche un uomo ha in sé una parte femminile, e una donna una maschile. Siamo anche, e ribadisco anche, un genere, ma la definizione identitaria è ben più ampia del solo genere. Da dove vieni? Che studi e incontri hai fatto? Quale il tuo incontro con la "morte"? Sei morto per poi rinascere? Quali sono i tuoi incubi e i tuoi desideri più segreti?
È fondatrice, presidentessa e direttrice dell’ATIR, Associazione Teatrale Indipendente per la Ricerca: ci può illustrarne le finalità?
ATIR è nata vent'anni fa per mano di un gruppo di ragazzi animati da una "disperata vitalità" di pasoliniana memoria. Nasce con lo scopo di fare teatro, di raccontare storie e di usare il teatro come strumento di inclusione e di incidenza profonda nel reale e nella società. Parlare dell'oggi con più persone possibili, condividendo un'esperienza intensa di incontro. Divertirsi, ridere e piangere con Shakespeare come con Paravidino, come in un gioco o in un corso di teatro integrato. Vivere, vivere meglio e meno soli, con più coscienza e meno paura.
Ha detto che molte persone, soprattutto nell’ultimo ventennio, fanno arte perché si sentono orfane di verità…
Quanto più ci siamo sfiduciati della politica e della nostra reale possibilità di cambiare le cose... Quanto più siamo diventati pura "merce", utili al "consumo", generatori di profitto e basta... Quanto più la tecnologia isola nello scambio e nelle modalità... Tanto più l'uomo (nel senso di essere umano) sente il bisogno dell'"incontro", per vincere la solitudine e il senso angoscioso di vuoto. Il teatro è l'arte dell'incontro per eccellenza, è un rito sacro, è imparare ad esserci... mica poco, no?
Nella sua “poetica” c’è un convinto impegno politico, come si concilia con la creatività artistica?
Un gesto d'arte è sempre politico. Se per politico si intende "riferito alla polis", alla città. Non importa che l'artista si schieri o sia un attivista, egli incide nella società in quanto il suo gesto è pubblico. Per questo l'artista, come ogni altro cittadino del resto, deve avere una coscienza politica, un pensiero sulla società, l'economia, l'organizzazione umana.
Si è molto interessata al problema dell’emarginazione e del disadattamento anche con il progetto “Gli spazi del teatro”: ce ne può parlare?
Il teatro è incontro e relazione fra due o più esseri umani. Il teatro dunque, nell'era digitale di internet e dei cellulari, torna ad assumere il suo compito originale e antico, avvicinare l'uomo a se stesso e agli altri, nell'immanenza dei suoi rapporti. È evidente dunque che chi ama il teatro, facilmente ama poterlo usare come potente arma di integrazione quale esso è.
Il Teatro Ringhiera, di cui è direttrice artistica, si trova nella particolare situazione di essere logisticamente e anche come punto di riferimento socioculturale, un teatro di quartiere, ma nello stesso tempo attua una programmazione di dimensione nazionale o internazionale: come si riesce a intrecciare questi due aspetti?
Ho sempre sostenuto un concetto di "arte nazional popolare di qualità". Nel programmare cerco spettacoli e artisti comunicativi e immediati, che sappiano emozionare e coinvolgere chiunque, a prescindere da età, sesso, cultura. E questo lo penso per il Ringhiera come per il Piccolo. Territorio significa dove sei a breve ma anche a lunga distanza, una continua e fitta relazione dinamica, il quartiere, certo, ma anche la città, l'Italia, il mondo. Il teatro appartiene a tutti e non deve rivolgersi a delle élite che se lo possono permettere. Certo, se avessi un po' di soldi per programmare proprio come vorrei, beh, il Ringhiera sarebbe una bomba davvero!