Daniele Lince è un giovane videomaker, autore e regista che lavora in una multisala. Ci può essere gioco di specchi più limpido ed estremo di questo? L'Alfa e l'Omega si strofinano elegantemente producendo un senso di elegante destabilizzazione, come le sue originalissime storie che mi hanno subito conquistato per la loro freschezza, dote non facile nella nostra era ipercinematografico-filmica. Proviamo a parlare di cinema con un giovane che lo vive dal produttore di nicchia al consumatore fra i consumatori...
Caro Daniele i tuoi corti mi sono sembrati subito delle visioni complete, dei grandi racconti, dei romanzi per immagini, anche se talvolta durano pochi minuti. Brevissimo ad esempio quello dedicato all’ossessione per le slot, Sesso, Droga & Slot Machines, che in un soffio trasforma in un incubo credibile la descrizione di una vincita. Oppure mi ha suggestionato profondamente anche Piccoli dei dove in un battito d’ali la storia di un bambino maltrattato da alcuni ragazzi si incrocia improvvisamente con la vicenda di un cecchino assoldato dalla mafia e si libra in una favola surreale del medesimo bambino che si vendica come un mitico giustiziere. Come fai a condensare in pochi minuti una narrazione così intensa e complessa?
Il lavoro sull’ossessione da gioco deriva da un’esperienza vissuta di conoscenza di persone che passavano ore in questi luoghi artificiali, devastando le relazioni umani e la loro stessa coscienza. È stata un’esperienza indiretta ma pesante. In Piccoli dei invece il bambino protagonista in realtà ha qualcosa di particolare. Ad esempio tortura gli insetti. Il tema di questo lavoro è proprio l’ambiguità, il borderline, una soglia che puoi vedere da più crinali, giungendoci da opposti sentieri. Piccoli dei è come una matrioska di racconti. Liti fra ragazzi, un bambino strano, un assassino, due amanti. Eppure questo caos gradualmente si combina e si processa. Sono anelli narrativi che confluiscono nell’estremismo del finale, giocando fra scherzo, imitazione e finzione.
Un altro tuo gioiello mi sembra Pelle che racconta di una mutazione genetica della pelle umana quale difesa climatica della razza umana. Quando sembra che tale trauma sociale si avvii ad essere accettato (e finalmente si annullerebbe definitamente il razzismo) ecco risorgere l’ossessione per la discriminazione. Ti senti un artista della surrealtà? Come puoi definire questa dimensione?
Nella scena finale avviene un incontro fra queste persone “mutanti” e si inventa l’appellativo di ex bianco: il tarlo della discriminazione che emerge persino in un futuribile mondo di “tutti neri”.
Sembri affezionato a una dialettica narrativa che ama i ribaltamenti. Nel tuo Il Metodo Marcy, che hai portato al Festival de Cannes, colleghi l’omicidio a una tecnica di dimagrimento. E’ una denuncia etica contro l’ideologia del successo a tutti i costi?
In inglese il titolo è The Mourners, che significa “I portatori di lutto”. Sì, abbiamo estremizzato l’ossessione per la “confezione”, di come appariamo. L'idea originale e la sceneggiatura portano la firma di Roberto Tomeo, vincitore di vari premi grazie a questo lavoro. Non volevamo fare però il “classico” film di denuncia sociale, così abbiamo scelto un genere, il thriller, perfetto per sottolineare questo pericoloso aspetto della vita di oggi. Ribaltando certi pericoli, come le controindicazioni di certi medicinali che fanno dimagrire, Roberto è giunto all’idea dell’omicidio a “scopo di dimagrimento”. Il tema è quindi il “sacrificio richiesto per”. Fin dove si può arrivare? I nostri modelli di esistenza non implicano implicitamente dei sacrifici umani virtuali, potenziali, sostitutivi? Save a life. Your life. Ecco la dissociazione/connubio fra retorica del risultato e assenza di umanità. Nel cortometraggio alcuni personaggi non hanno un reale bisogno di dimagrire, tuttavia sono incapaci di accorgersene e accettano di uccidere lo stesso! Si può parlare anche di illusioni di “scorciatoie esistenziali”…
Ammiro sempre chi lavora con intelligenza dentro le dinamiche del linguaggio. In Strani Incontri riesci a camminare sul sottile crinale fra comicità e pathos, come in una sintesi di un realismo lirico estremo. Ma il tutto nella massima naturalezza. Sembra un racconto tratto da Checov o da Dostoevskij, specialmente in certe scene come quando il protagonista chiama a caso persone dall’elenco telefonico per fare due chiacchiere. Veri romanzi in quanto tutti possono riconoscersi nelle tue visioni, anche se molto diverse dagli stili di vita e dal vissuto di ciascuno.
Strani Incontri è un mediometraggio di circa dodici anni fa. È nato in modo spontaneo, senza tesi particolari, così come tutti gli altri miei lavori. Una provincia in bianco e nero che fluttua nel dormiveglia di una incomunicabilità generalizzata. Durando circa quaranta minuti ha una struttura narrativa simile a quella di un lungometraggio. Nella sua essenza per me è anch’esso un tipo di cortocircuito, cioè la manifestazione sorprendente della paradossalità della vita.
Giusto, e ciò corrisponde allo stesso senso dell’etimo del termine tecnico ("cortocirtuito"): un eccesso di energia fra due punti distinti ma ravvicinati! Riesci a comunicare una grande ricchezza di significati ma sempre con semplicità ed eleganza. Mi ha molto impressionato Mario & Netta Show, dove la marionetta di un ventriloquo che “non riesce a smettere” assume toni inquietanti e destabilizzanti nel dialogo con una psicoterapeuta. Mi ricorda la stessa profondità traumatica della favola L’ombra di Andersen.
In questa storia, a un certo punto, avviene un ribaltamento di ruoli: il personaggio del ventriloquo, Mario, diventa una sorta di “psicoterapeuta della propria psicoterapeuta” in un desiderio estremo di verità e sincerità, come a non poter più sostenere una situazione “a tre” fra lui, la dottoressa e il pupazzo. E il tutto con la minaccia di perdere la vita. L’idea di partenza era proprio quella di rendere la marionetta un personaggio, con tutta la sua fisicità.
Quando e come hai iniziato?
A dodici anni circa, “obbligando” amici e parenti a prestarsi come attori. “Costrinsi” i miei genitori a regalarmi una videocamera e da lì in poi iniziai a giocare con quello strumento che tanto mi affascinava e continua ad affascinarmi. Ma giocavo a fare “il regista” già prima di avere una videocamera, usando soldatini di plastica come attori e piccoli plastici come set. Il primo cortometraggio girato con amici si intitola La mafia. Ovviamente si trattava di una versione domestica de Il Padrino in cui gangster, interpretati da dodicenni, sparavano con pistole a salve comprate al supermercato! Rivedendo oggi i primi esperimenti, posso vedere il percorso graduale di studio fatto per arrivare a capire come si realizza una scena, partendo dalla pianificazione delle riprese, arrivando poi al momento del montaggio.
I tuoi registi preferiti?
Mi piacciono molto i fratelli Coen, adoro le loro storie e il loro black humor. Loro giocano molto con i generi, è una cosa che mi piace. Seguo con attenzione i lavori dei due Anderson, Paul Thomas e Wes, diversissimi ma entrambi “enormi”. Sono affezionato a Woody Allen. Sono affascinato dai viaggi onirici di Terry Gilliam. Adoro le commedie di Billy Wilder, anche se credo di non averle viste ancora tutte. Parlando di registi italiani potrei citare Paolo Sorrentino (anche se non ho amato il film con cui ha vinto l'Oscar) e, nonostante abbia per ora visto soltanto i suoi ultimi due film, Gli equilibristi e I nostri figli, Ivano De Matteo. Quando sono triste un film di Cameron Crowe è ciò che mi tirerà su il morale! Mi piacciono i film di Alexander Payne, Spike Jonze, Tim Burton, Noah Baumbach, Jim Jarmusch, James Gray, Christopher Nolan, David O. Russell... dopo l'intervista mi verranno in mente almeno altri dieci registi che avrei voluto citare! Ricordo che quando andavo alle scuole elementari decisi di voler fare il regista dopo aver visto Jurassic Park, Indiana Jones e l'ultima crociata, Star Wars ed E.T.. Se potessi scegliere chi essere nella storia del cinema direi Charlie Chaplin. Ma sento di aver imparato molto grazie ai film di Hitchcock, vere e proprie lezioni di cinema. Io, come regista, mi sento abbastanza a mio agio a pianificare le riprese da un punto di vista “tecnico”, ma sento di dover ancora imparare tanto riguardo la direzione degli attori. Per ora, volendo ironicamente esagerare, mi inserisco nella categoria “registi di immagini”. Scherzi a parte, credo dipenda tutto da dove si inizia: io ho iniziato dagli strumenti necessari per realizzare un film. Chi viene dal teatro, invece, credo abbia più dimestichezza con gli attori, magari meno con la macchina da presa.
Apprezzo questa tua sincerità e mi aspetto da te presto nuove visioni che smuovano ancora le nostre cristallizzazioni mentali, sorprendendoci in profondità. Lavori in corso?
Lo scorso anno ho diretto il primo cortometraggio in lingua inglese, con attori madrelingua. Si intitola The Price e ha già partecipato ad alcuni festival internazionali. The Price ci porta in un ipotetico futuro in cui gli esseri umani sono diventati immortali grazie a una scoperta scientifica “inaspettata” da parte di due ricercatori che stavano cercando una cura per vari tipi di cancro. E' ancora Roberto Tomeo l'autore del soggetto, sceneggiato da lui stesso in collaborazione con l'attore/sceneggiatore americano Stewart Arnold. La storia ipotizza quali effetti collaterali potrebbero saltare fuori dopo circa 200 anni di routine quotidiana: saremmo davvero in grado di vivere per sempre? Oltre a The Price, che stiamo promuovendo (Roberto e io vorremmo potesse diventare una serie Tv), siamo al montaggio con Alone Together, che racconta l'agitazione e la titubanza che precede l'incontro di due amanti, con un focus sull'utilizzo esagerato di messaggi/chat come canale comunicativo principale anche quando potrebbe non essere necessario: abusando dei dispositivi di cui oggigiorno disponiamo più o meno tutti, dai tablet agli smartphone, non rischiamo di allontanarci gli uni dagli altri pur avendo la sensazione di essere “più vicini” di prima?